06. L’ispirazione della Bibbia

06. L’ispirazione della Bibbia

Natura della rivelazione biblica

Di Rice Richard [1]

Troviamo la comprensione cristiana della Bibbia in due importanti testi del Nuovo Testamento. Gli scrittori stavano parlando in modo particolare degli scritti dell'Antico Testamento, ma la loro descrizione si applica altrettanto bene al Nuovo Testamento. "Ogni Scrittura è ispirata da Dio" (2 Tim 3:16). "Non è dalla volontà dell'uomo che venne mai alcuna profezia, ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo" (2 Pt 1:21).

Come espressa in questi versetti, la dottrina biblica dell'"ispirazione" con­tiene due importanti idee.

Una è l'autorità divina delle Scritture. I Profeti, gli scrittori della Bibbia, non hanno parlato o scritto di propria iniziativa: il loro messaggio ha avuto origine in Dio. E ancora, Dio guida il processo di trasmissione di questi messaggi per dare la certezza che ciò che viene udito e letto è l'espressione affidabile della sua volontà.

Carattere divino ed umano della Scrittura

Una seconda implicazione dell'ispirazione è il carattere divino-umano della Scrittura. Il messaggio viene da Dio ma è espresso in termini e concetti umani, e i diversi scritti riflettono chiaramente la personalità degli autori. E' importante sot­tolineare entrambi gli aspetti della rivelazione biblica, quello divino e quello umano. Compresi in modo corretto essi eliminano tre modi errati di concepire la Bibbia.

Il primo consiste nel pensare che Dio sia il vero "autore" della Bibbia men­tre gli scrittori erano solo i suoi segretari: egli dettava i suoi messaggi ed essi li trascrivevano. Questo modo di vedere la Scrittura esalta il suo aspetto divino ma trascura quello umano presentandoci una Bibbia che solo apparentemente sem­brerebbe opera di esseri umani quando, in realtà, sarebbe esclusivamente divina.

Il carattere duplice della Scrittura esclude pure l'idea che gli scrittori biblici non abbiano espresso altro che idee e aspirazioni umane. Secondo questa teoria, essa sarebbe soltanto il prodotto di una genialità religiosa da collocare tra i mas­simi capolavori letterari. In ultima analisi essa non sarebbe però che una raccolta di documenti umani e nulla più. La Bibbia sostiene che i suoi scrittori erano uomini che pensavano e scrivevano in termini umani, ma pretende che essi erano mossi, o ispirati, a fare ciò da Dio. Egli è il responsabile finale dei loro messaggi.

Terzo, il carattere divino-umano della Scrittura è incompatibile con l'idea che la Bibbia sia una mistura di umano e divino. In questa prospettiva, la Bibbia sembra avere parti più importanti e significative di altre. Il Vangelo di Giovanni, ad esempio, per molti ha più significato di Abdia. Il Sermone sul Monte esprime idee più elevate dell'Ecclesiaste. Queste differenze hanno spinto molti a concludere che certe parti della Bibbia siano divinamente ispirate mentre altre sono pura­mente umane. Di conseguenza, per godere della vera Parola di Dio bisogna separare questi due gruppi di testi.

Ma i due aspetti della Scrittura, il divino e l'umano, sono inseparabili. La Bibbia non è una combinazione di parole divine e di parole umane. La Bibbia esprime le parole divine in parole umane. Se si eliminano le umane si eliminano automaticamente le divine.

L'unione del divino e dell'umano nella Bibbia è un po' come la combina­zione genetica di due genitori in un bambino. Alcune sue caratteristiche ricorde­ranno la madre. Per altre assomiglierà al padre. Ma in nessun modo è possibile separarle senza fare violenza alla persona implicata.

L’umanità della Bibbia

Diversi elementi della Bibbia sottolineano il suo carattere umano. Uno è il fatto che è scritta in un linguaggio umano. I suoi scrittori hanno usato la lingua del loro tempo. L'Antico Testamento è scritto quasi tutto in ebraico. Il Nuovo è scritto in greco, non quello classico dei poeti e dei filosofi, ma il greco della koinê, la lingua dello stadio e del mercato.

Lo stile letterario della Bibbia varia ugualmente da uno scrittore all'altro. Alcuni libri, come Ebrei, mostrano una notevole proprietà di espressione con un vocabolario ricco e frasi ben costruite. Altri, come l'Apocalisse, sono scritte al­quanto modestamente, con errori grammaticali e un vocabolario limitato.

Molti scrittori biblici hanno usato altri materiali mentre scrivevano. L'autore dei Re e delle Cronache, ad esempio, dipendevano da opere precedenti. La na­tura dei testi mostra che Matteo e Luca hanno copiato abbondantemente dal Vangelo di Marco e da una raccolta scritta di detti di Gesù.

Una ulteriore indicazione del carattere umano della Bibbia è l'espressione di emozioni umane che troviamo frequentemente nelle sue pagine. Non c'è esempio migliore del Salmo 137 che esprime i sentimenti degli Ebrei deportati in Babilonia: "O figliuola di Babilonia, che devi essere distrutta, beato chi ti darà la retribuzione del male che ci hai fatto! Beato chi piglierà i tuoi piccoli bambini e li sbatterà contro la roccia!"

È chiaro, dunque, che le Scritture sono documenti certamente umani, scritti da diversi uomini in circostanze diverse, con diverse personalità, preoccu­pazioni e capacità.

La divinità della Bibbia

Nella Bibbia, oltre a quello umano, anche se più difficile da identificare, c'è anche un aspetto divino. I Cristiani si appellano spesso a due tipi di prove per sostenere la convinzione che la Bibbia sia più che una collezione di semplici scritti umani.

Una è l'armonia tematica esistente tra i vari scritti, per quanto numerosi e diversi siano. I Cristiani trovano un tema comune che attraversa tutti i documenti biblici, unificandoli in un tutto coerente, e credono che solo Dio poteva assicurare una tale unità durante i lunghi secoli della sua composizione. L'amore di Dio, il piano della salvezza, e le alleanze sono i candidati più accreditati per questo tema.

Gli studi biblici degli ultimi anni tendono a sottolineare l'enorme diversità esistente tra gli scrittori della Bibbia, e alcuni studiosi sono ora convinti che non c'è alcun tema unificatore nelle Scritture. Essi mostrano che alcuni documenti sembrano avere ben poco in comune con gli altri se non il fatto di appartenere alla stessa collezione.

Un'altra prova del carattere divino della Bibbia è l'impatto che ha sulla vita degli uomini. Per secoli, milioni di persone in circostanze ampiamente diverse hanno scoperto che la Bibbia parlava loro personalmente, portando alla luce i loro peccati, guidandoli, confortandoli nelle difficoltà, dando loro coraggio e offrendo loro speranza. Certamente nessun altro libro ha significato così tanto per così tante persone. Come potrebbe un libro avere così tanto potere, si sostiene, se non avesse la sua origine in una fonte più elevata dell'uomo?

La miracolosa preservazione della Bibbia attraverso la Storia sottolinea il suo carattere straordinario. I documenti biblici sono stati oggetto di distruzioni deliberate e di incomprensibili trascuratezze. E tuttavia le scoperte di manoscritti indicano che la Bibbia è rimasta essenzialmente immutata per migliaia di anni. In alcuni casi, i documenti biblici più antichi che abbiamo ci riportano indietro vicinis­simi al tempo della composizione degli originali. Possiamo avere fiducia che le nostre Bibbie sono versioni affidabili dei messaggi degli scrittori originali.

In ultima analisi, vi sono due criteri fondamentali per verificare la validità della Bibbia. Uno è concettuale e l'altro esistenziale. Il concettuale chiede: "La Bibbia è logica? Descrive in modo accurato la nostra condizione umana?  Propone una soluzione ragionevole per i nostri problemi? Nel loro insieme i suoi insegnamenti sono logici e si armonizzano gli uni con gli altri?" Il criterio esisten­ziale riguarda l'affidabilità che riconosciamo alla Bibbia su un piano personale: "Posso credere nelle sue affermazioni è affidare la mia vita alle sue promesse?" In qualche modo possiamo discutere pubblicamente del primo criterio, ma il se­condo è profondamente privato. Possiamo applicarlo solo entro i confini della nostra esperienza personale.

Tutte le argomentazioni disponibili a favore dell'origine divina della Bibbia mancano di una capacità probante definitiva. Alla fine, decidere se la Bibbia è la Parola di Dio è una questione altamente personale che dipende dalla nostra capacità di comprendere i suoi insegnamenti e dalla nostra disponibilità ad ascoltare il suo messaggio per inserirlo nella nostra vita.

La natura dell'ispirazione profetica

Gli scritti della Bibbia non solo affermano che Dio è responsabile della sua origine, ma alcuni di essi descrivono la sua partecipazione alla loro produzione in modo abbastanza preciso. Le descrizioni più vivide raccontano le esperienze dei Profeti che parlarono da parte di Dio con rimarchevole chiarezza.

Un breve sguardo al fenomeno dell'ispirazione profetica o "profetismo" ci aiuterà a comprendere come l'elemento divino e quello umano si combinino producendo il duplice carattere delle Scritture. Si vedrà così anche il fatto che la questione dell'origine divina della Bibbia non può essere evitata.

L’esperienza profetica

I Profeti biblici erano i portavoce di Dio. Essi trasmettevano al popolo i messaggi che avevano ricevuto, o che affermavano di avere ricevuto da Dio. Ogni aspetto della loro esperienza merita di essere attentamente considerato. Il primo è il modo in cui i Profeti ricevevano i loro messaggi.

Secondo i vari racconti biblici, il messaggio giungeva al Profeta attraverso una esperienza definita a volte come "visione" a volte come "sogno". "Se v'è tra voi alcun Profeta, io, l'Eterno, mi faccio conoscere a lui in visione, parlo con lui in sogno" (Num 12:6). La caratteristica essenziale  di queste esperienze emerge dai diversi racconti fornitici da Profeti come Isaia, Geremia, Ezechiele e Daniele.

In ogni caso, il Profeta riceveva il messaggio attraverso una esperienza in­tima e precisa. La visione o il sogno costituivano un evento specifico. Il loro avve­nimento poteva essere collocato nel tempo e nello spazio. La prima visione di Ezechiele, ad esempio, avvenne "l'anno trentesimo, il quinto giorno del quarto mese [...], essendo presso al fiume Kebar, fra quelli ch'erano stati menati in cattività" (Ez 1:1). Altri Profeti descrivono in modo simile le circostanze delle loro visioni.

Anche il contenuto dei loro messaggi era ben preciso. Non si trattava di una convinzione che si sviluppasse nell'animo del Profeta, non sorgeva gradual­mente durante un lungo periodo. Né si trattava di una vaga impressione nella mente del Profeta. Invece, il contenuto era vivido e preciso. I Profeti stessi non arrivavano neppure sempre a comprendere il significato di ciò che vedevano e udivano (cfr. Dn 8:27), ma comprendevano sempre molto bene il significato dell'esperienza in sé.

Un'altra caratteristica importante dell'esperienza profetica, è il fatto che essa includeva un incontro con il potere divino. I Profeti erano assolutamente certi della fonte dei loro messaggi. Essi non li attribuirono mai a una fonte di origine sconosciuta. Non avevano alcun dubbio sul fatto che Dio stesse comunicando con loro. Essi condannavano quindi altri che "profetano di loro senno" (Ez 13:17).

Poiché noi, o almeno la maggioranza di noi, non abbiamo una esperienza profetica, ci è impossibile conoscere esattamente in cosa consistesse. Sembra che coinvolgesse la ricezione di impressioni sensoriali. La parola "visione", natu­ralmente, richiama di per se stessa l'uso di uno dei nostri sensi. I Profeti dicono di vedere e udire delle cose, spesso altamente drammatiche e dolorose. Daniele, ad esempio, rimase profondamente perplesso riguardo alle bestie che aveva visto venire fuori dal mare in una delle sue visioni.

E' importante notare che i Profeti non perdevano la coscienza di sé du­rante queste esperienze. Al contrario, essi diventavano più consapevoli di chi e di dove erano. Abacuc, in una delle sue visioni (1:13), pose a Dio delle domande e Isaia si sentì terribilmente impuro vedendo la gloria di Dio (6:5). Si vede dunque come la personalità dei Profeti non fosse soppressa quando il Signore entrava in contatto con essi.

Profezia con estasi

Queste caratteristiche ci impediscono di considerare l'esperienza dei Profeti come una forma di misticismo o di estasi. Nella storia di ogni religione vi sono racconti di persone che si sono sentite estremamente vicine a Dio. Essi desiderano profondamente la sua presenza. Di tanto in tanto si sentono così vicini a lui da perdere il senso della loro identità personale. Sembrano diventare una stessa cosa con lui. Chi ha vissuto queste esperienze trova normalmente impossibile descriverle, tanto sono dissimili da qualunque altra cosa. Essi tendono pure a considerarle come la parte più meravigliosa e più profondamente significa­tiva della loro vita.

Bisogna notare quanto diverse fossero le esperienze dei Profeti. Le loro visioni giungevano sia che lo desiderassero o no. Non dovevano prepararsi per averle, né fisicamente né mentalmente. Lungi dall'essere indescrivibili, i Profeti riportavano estesamente il contenuto delle loro visioni. Inoltre, l'avere una visione non aveva mai in sé il suo fine ma costituiva il mezzo per raggiungere un fine diverso. Il suo scopo era compiuto solo quando il Profeta comunicava il messag­gio ricevuto all'uditorio cui era destinato.

La personalità del profeta

Prima di volgerci alla comunicazione del messaggio profetico, dobbiamo notare qualcosa d'altro a proposito delle visioni profetiche. Si tratta del fatto che ogni Profeta percepiva e rispondeva a ciò che vedeva e udiva in visione, in un modo che rifletteva la propria personalità individuale. Ciò è naturalmente vero di ogni esperienza. Non vi sono due persone che possano vivere una esperienza esattamente allo stesso modo. Il nostro background, la nostra educazione, i nostri interessi, i nostri pregiudizi, le nostre speranze e le nostre paure, tutte queste cose influenzano la nostra percezione. Lo stesso accadeva ai Profeti nelle loro visioni. La loro personalità e la loro visione complessiva della realtà avevano un effetto inevitabile sul modo in cui vedevano e udivano.

La personalità dei Profeti giocava pure un ruolo importante nel modo in cui essi comunicavano i messaggi che ricevevano in visione. Il linguaggio, le parole, i concetti, e forse la forma letteraria con cui i messaggi erano espressi, tutto ciò dipendeva dalla capacità e dalla predisposizione del Profeta, insieme alle circostanze in cui si esprimevano.

Lo scopo della profezia

In un certo senso, la ricezione della visione era solo una tappa preliminare in rapporto all'opera principale del Profeta. Per definizione, il suo compito era di parlare, di comunicare, alla gente da parte di Dio. Il Profeta stesso era più preoc­cupato della comunicazione del messaggio che della sua ricezione.

È importante sottolineare questo fatto per evitare di ridurre la dottrina della rivelazione al fenomeno dell'ispirazione. Quando ciò accade, ci si comincia a preoccupare della produzione della Bibbia e meno interessati alla sua funzione che è quella di comunicare il messaggio della salvezza agli esseri umani. Naturalmente, come la Bibbia venne all'esistenza è ugualmente importante. Comprendere questo fatto aiuta a riflettere sull'origine divina del suo contenuto. Ma tutto ciò deve essere visto in rapporto alla più ampia dinamica del processo di comunicazione di Dio con l'uomo, e questo processo non si realizza fino a che il Profeta non articola verbalmente il messaggio e la gente non lo ascolta. L'ispirazione, di conseguenza, non è che un aspetto della rivelazione, e non dob­biamo perdere di vista il più ampio quadro d'insieme.

Sebbene i Profeti esprimessero i loro messaggi con loro parole, non dob­biamo concludere che il ruolo di Dio nel processo della rivelazione finisse con la visione data al Profeta. In realtà, Dio è coinvolto nell'intero processo, ivi inclusa la ricezione del messaggio da parte del popolo. L'espressione di 2 Pietro 1:21, "uomini sospinti dallo Spirito Santo", suggerisce il fatto che essi fossero condotti dallo Spirito man mano che parlavano. L'azione dello Spirito assicura che pur con le loro parole essi comunicassero il messaggio voluto.

Come risultato, il messaggio profetico, parlato o scritto, rappresenta una verità divinamente impartita espressa in parole umane. Esso è affidabile come espressione del volere divino nonostante porti le caratteristiche individuali dei suoi autori umani. I suoi aspetti divini e umani formano, come abbiamo già visto, un insieme integrale e indivisibile.

L'ispirazione profetica che abbiamo appena esaminato non è sufficiente per spiegare la produzione di tutti i libri della Bibbia. Non tutti questi attribuiscono a delle visioni il loro contenuto. Alcuni scrittori riconoscono espressamente il loro uso di altri scritti. Luca, ad esempio, comincia il suo Vangelo citando altri tentativi di compilare una narrazione della vita di Gesù, e dicendo che al suo proprio scritto soggiace una attenta opera di ricerca (1:1-3).

Prima della sua morte Gesù aveva promesso ai suoi discepoli che lo Spirito santo li avrebbe aiutati a ricordare ciò che egli aveva detto loro (Gv 14:26). Cosicché una memoria divinamente sostenuta deve essere pure invocata per spiegare l'origine di certi scritti biblici. Visto nel suo insieme, di fatto, questo è proprio ciò che il Nuovo Testamento rappresenta: una memoria divinamente autorizzata su Gesù.

La questione dell'inerranza biblica

I Cristiani conservatori sono tutti d'accordo nel credere che la Bibbia è una fonte affidabile di conoscenza su Dio e sulla sua volontà per la vita dell'uomo. Essi l'accettano come divinamente autorevole. C'è tuttavia una sensibile divergenza tra gli Evangelici contemporanei intorno a ciò che tale fiducia comporti. Alcuni insistono nel dire che l'origine divina della rivelazione garantisce che il prodotto finale, la Bibbia, è totalmente libera da errori. Altri, ugualmente fiduciosi nell'autorità della Bibbia, si trovano in disaccordo. Essi accettano la Bibbia come autorità suprema per la fede e la prassi del credente, ma non credono che sia totalmente priva di errori.

La difesa dell’inerranza

Tra i sostenitori dell'inerranza si trovano alcuni degli evangelici più conosciuti a livello mondiale come Carl F. H. Henry e Francis Schaeffer.[2] Essi sono motivati da un forte desiderio di preservare l'unicità della Bibbia e di affer­mare la sua affidabilità come fonte di verità. Le loro argomentazioni fondamentali possono essere sintetizzate in tre punti: (1) Dio è l'autore della Bibbia, (2) Dio non è mai autore dell'errore, (3) perciò la Bibbia è priva di errori.

Questo non significa che la Bibbia non contenga errori ortografici o di grammatica. Né significa che Dio abbia dettato il suo contenuto parola per parola. Ciò che si vuole dire è che Dio guida le menti degli scrittori biblici in modo tale da impedire loro di fare affermazioni erronee. Tutto ciò che essi affermano è vero, sia che parlino di geografia, di cronologia e storia, sia che parlino di religione e teolo­gia. Se la Bibbia è veramente affidabile, sostengono, deve essere totalmente affidabile.

E' pure importante notare che i sostenitori dell'inerranza applicano carat­teristicamente questa qualità solo ai documenti originali prodotti dagli scrittori biblici, cioè agli "autografi", come sono chiamati. Dio non è direttamente coinvolto nel processo di copiatura dei manoscritti biblici come lo è stato nella loro originaria produzione. Così, qualunque errore appaia nei manoscritti biblici disponibili è imputabile al processo di copiatura non ritrovandosi nei manoscritti originali. Di conseguenza, per quanto importante sia l'inerranza, essa è applicabile solo a documenti che non esistono più! La Bibbia, così come noi l'abbiamo, non è più inerrante ma solo infallibile.

Ciò che più di ogni altra cosa probabilmente motiva i sostenitori dell'iner­ranza è il timore che la Bibbia perda la sua autorità a meno che non si possa credere che essa sia totalmente priva di errori. Una volta compromessa l'unicità della Bibbia come fonte di verità, sembrano pensare, niente può impedirci di concludere che essa sia solo un libro fra tanti altri, e che possiamo cogliere e scegliere dal suo contenuto ciò che ci piace.

Problemi dell’inerranza

Ci sono diversi motivi per cui altri Cristiani conservatori obiettano al con­cetto di inerranza biblica.[3]

Per cominciare essa sembra trascurare la dimensione umana della Scrittura. Se crediamo che esseri umani fossero veramente coinvolti nella produ­zione della Bibbia, e che essi fossero i portavoce di Dio e non solo i suoi segretari, allora è irrealistico insistere su una Bibbia priva di errori. Nessun prodotto umano può esserne totalmente privo.

Un'altra obiezione all'inerranza biblica è che porta a volte a interpretazioni della Bibbia distorte e non convincenti. Diverse descrizioni bibliche dello stesso argomento o fatto sono spesso discordanti per certi aspetti. In un caso famoso, i Vangeli forniscono racconti divergenti del rinnegamento di Gesù da parte di Pietro in relazione al canto del gallo.  Invece di considerare questo fatto come indizio della presenza, nei Vangeli, di una discrepanza minore, i sostenitori dell'inerranza cercano di armonizzare tutti i racconti in modo che ognuno d'esso appaia lette­ralmente vero. Una soluzione propone che Pietro abbia rinnegato Gesù per un totale di sei volte in quel mattino della crocifissione.[4]

Una terza obiezione al concetto di inerranza è che essa travisa lo scopo fondamentale della Scrittura. Focalizza infatti l'attenzione sulla forma della Bibbia, mentre la cosa veramente più importante che si dovrebbe considerare è la sua funzione salvifica. Il suo vero scopo è quello di condurre gli uomini a una rela­zione salvifica con Dio. L'inerranza distrae le persone da questo scopo fondamen­tale della Bibbia, sottolineando le sue caratteristiche formali a scapito del suo contenuto.

Strettamente connessa con questa è l'osservazione che il concetto di iner­ranza è in se stesso non biblico. Mai gli scrittori della Bibbia affermano che tutte le loro affermazioni siano inerranti. Coloro che aderiscono a quest'idea l'hanno dedotta dal loro proprio concetto dell'ispirazione divina e l'hanno imposta alla Bibbia. Gli oppositori dell'inerranza sostengono un approccio induttivo invece che deduttivo di fronte al problema della natura delle Scritture. Essi vogliono che siano considerati i dati provvisti dalla Bibbia stessa, invece di elaborare deduzioni a partire da alcune premesse.

Gli Avventisti del Settimo Giorno non hanno mai difeso l'inerranza biblica, sebbene essi sostengano l'autorità divina e la completa affidabilità delle Scritture. Una delle cause di questa posizione è il fatto che Ellen G. White ammettesse la presenza di discrepanze minori nella produzione della Bibbia.[5] Un'altra causa è quella dell'esempio dei suoi propri scritti. Sebbene insi­stesse sull'origine divina dei suoi messaggi, lei non ha mai preteso che i suoi scritti fossero infallibili.[6]

 

[1] RICHARD RICE, THE REIGN OF GOD, ANDREWS UNIVERSITY PRESS, BERRIEN SPRINGS, MICHIGAN - USA 1985 - Il regno di Dio - Cap. II : La dottrina della rivelazione.

[2]Carl F.H. Henry fornisce una estesa difesa dell'inerranza biblica nella sua recente serie di volumi God, Revelazion, and Authority (6 voll.; Tx.: Word Books, 1976-1983), 4:129-255. La sua discussione contiene gli argomenti presentati in questo e nei tre paragrafi seguenti.

[3]Stephen T. Davies analizza attentamente gli argomenti a favore dell'inerranza e respinge questa visione delle Scritture a favore dell'infallibilità in The Debate About the Bible: Inerrancy Versus Infallibility (Philadelphia: The Wenstminster Press, 1977).

[4]Harold Londsell, The Battle for the Bible (Grand Rapids, Mich.: Zondorvan Publishing House, 1976), pp. 174-176; cit. in Davis, The Debate About the Bible.

[5]"Alcuni guardano a noi e dicono con tono grave: 'Non credi che il copista o il traduttore debbano aver commesso un qualche errore?' Ciò è del tutto probabile..." (Selected Messages, libro 1, p. 16). "Non c'è sempre un ordine perfetto o una unità perfetta nella Scrittura. I miracoli di Cristo non sono narrati in un ordine esatto, ma sono narrati così come le circostanze si realizzarono, circostanze che richiedevano la rivelazione divina del potere di Cristo" (Ibid., p. 20).

[6]"Riguardo all'infallibilità, non l'ho mai pretesa; Dio solo è infallibile. La sua parola è vera e in Lui non c'è mutamento o ombra di svolta" (Ibid p. 37).