09. Immortalità dell’anima – Conseguenze del dualismo antropologico

09. Immortalità dell’anima – Conseguenze del dualismo antropologico

1. Implicazioni dottrinali

Il concetto dualistico classico della natura umana ha enormi implicazioni dottrinali. Un gran numero di dottrine derivano o dipendono grandemente da questo. Per esempio, la convinzione che al momento della morte l’anima possa trasmigrare nel paradiso, nell’inferno o nel purgatorio riposa sul presupposto che l’anima sia immortale per natura e che abbia una sua vita autonoma. Questo significa che, se l’immortalità innata dell’anima poggiasse su una concezione non biblica, allora la dottrina relativa all’aldilà, (paradiso, purgatorio e inferno), dovrebbe essere radicalmente modificata se non addirittura rifiutata. Dal dualismo antropologico dipende anche la mediazione di Maria e l’intercessione dei santi che nella chiesa cattolica e nelle chiese ortodosse hanno un posto rilevante. Se le anime dei santi sono in cielo, si potrebbe pensare che esista la loro intercessione a favore dei peccatori che si rivolgono a loro. La devozione mariana e il culto dei santi anche se scaturiscono da una pietà popolare molto sentita, sono in contrasto con l’insegnamento biblico. L’apostolo Paolo ribadisce: «Infatti c’è un solo Dio e anche un solo mediatore fra Dio e gli uomini, Cristo Gesù uomo» (1 Tm 2:5).

Se, però, l’anima non sopravvive e non può esistere separata dal corpo, allora tutto l’insegnamento della mediazione di Maria e dei santi deve essere considerato come una aggiunta ecclesiastica. Un riesame dell’insegnamento biblico sulla natura umana, potrebbe avere conseguenze veramente dirompenti per le dottrine tradizionali della chiesa. Anche la dottrina del purgatorio poggia sul presupposto che l’anima sopravvive al corpo e questo falso insegnamento ha però indotto la chiesa a considerarsi, sulla terra, colei che ha una giurisdizione sul «serbatoio dei meriti» e può così attribuire i meriti di Cristo e dei santi alle anime che si trovano nel purgatorio. Questa dottrina ha portato la chiesa allo scandalo della vendita delle indulgenze, dando così inizio alla Riforma del sedicesimo secolo. I riformatori hanno considerato il purgatorio come una dottrina non biblica, ma hanno mantenuto la dottrina della traslazione delle anime individuali in uno stato di beatitudine (cielo) o in uno stato di punizione continua (inferno). Di nuovo, se la convinzione della sopravvivenza dell’anima alla morte fisica fosse considerata non biblica, allora le dottrine tradizionali relative al purgatorio, alle indulgenze e al transito delle anime al cielo o all’inferno, dovrebbero anch’esse essere rigettate come impianti voluti dall’uomo. L’opera che i riformatori hanno iniziato eliminando il purgatorio, ora, deve essere completata col ridefinire il paradiso e l’inferno in accordo con la Scrittura e non secondo le tradizioni ecclesiastiche. È improbabile che un tale colossale compito, possa essere oggi intrapreso da una qualsiasi chiesa protestante. Ogni tentativo di modificare o di rifiutare le dottrine tradizionali è stato spesso interpretato come un tradimento della fede, una causa di lacerazione del corpo unitario della chiesa. Questo è un prezzo talmente alto, che la maggior parte delle chiese non sono disposte a pagare.

L’immortalità dell’anima svaluta la parousia

Il dualismo tradizionale ha anche contribuito a svalutare la speranza dell’avvento. La fede nell’ascensione delle anime al cielo può oscurare ed eclissare l’attesa del secondo avvento. Se alla morte, l’anima del credente «ascende» immediatamente alla beatitudine del paradiso per essere con il Signore, il credente con difficoltà potrà coltivare il senso reale dell’attesa di Cristo che «scende» per risuscitare i santi che dormono. La preoccupazione principale sarà quella di raggiungere immediatamente il paradiso, come anima immortale e non di vivere ogni momento presente con lo sguardo rivolto all’evento futuro. Quelli che sono convinti di possedere un’anima immortale credono che una parte di se stessi sia incapace di non esistere. Tale convinzione esalta l’individuo e dà la certezza che una parte di sé ritorna al Signore. Mentre quelli che credono alla risurrezione finale non possono esaltare se stessi perché hanno riposto la fiducia in Cristo Gesù e nelle sue promesse, tra cui quella del suo glorioso ritorno per risuscitare i morti e trasformare i viventi. Questo significa che non sono le anime dei morti che «volano» in cielo, ma è il Signore che «viene» dal cielo per incontrare i suoi fedeli.

Un’altra conseguenza della speranza individuale fondata sull’immortalità immediata risiede nel fatto che essa cancella la speranza biblica comunitaria per un’ultima restaurazione della creazione e delle sue creature (cfr. Rm 8:19,23; 1 Cor 15:24,28). Quando l’unico futuro che conta veramente è la sopravvivenza dell’anima individuale alla morte, l’angoscia per l’umanità raggiunge un interesse periferico e marginale. In questo modo il valore della redenzione di Dio che permea tutto il cosmo viene a essere grandemente offuscato. La conseguenza ultima, secondo Abraham Kuyper, è questa: «La maggioranza dei cristiani pensa a un futuro che non va oltre la propria morte».

Equivoci sul mondo futuro

Il dualismo classico ha incoraggiato idee erronee sul mondo futuro. Il concetto comune di paradiso come luogo di beatitudine dove le anime glorificate trascorreranno l’eternità nella contemplazione e nella meditazione, è ispirato più al dualismo platonico che al realismo biblico. Per Platone, i componenti materiali di questo mondo sono malvagi e, di conseguenza, non degni di sopravvivenza. Lo scopo ultimo, è quello di raggiungere il regno spirituale dove le anime, liberate dalla prigionia del corpo materiale, godranno una beatitudine eterna. Durante il corso di questo studio vedremo che nell’Antico e nel Nuovo Testamento non esiste il dualismo tra un mondo materiale inferiore e un regno spirituale superiore. La salvezza finale inaugurata dalla venuta del Signore è considerata nella Scrittura non come «una fuga da…», ma come una «trasformazione» di questa terra. L’insegnamento biblico riguardo il mondo futuro non è quello di un «celestiale ritiro spirituale» abitato da anime glorificate, ma questo nostro «pianeta» popolato da santi risuscitati (cfr. Is 66:22; Ap 21:1).

Implicazioni pratiche

Il dualismo classico della natura umana ha privilegiato le attività intellettuali a scapito di quelle manuali. L’esistenza di un’anima separata dal corpo ha svilito tutte le attività legate al corpo e soppresso gli appetiti fisici, impulsi naturali e salutari. Per contro, l’uomo secondo la Bibbia, come unità psicosomatica indivisibile, canta la creazione di  Dio, compreso il piacere fisico. La spiritualità medioevale aveva promosso la mortificazione della carne come un modo per raggiungere la meta divina della santità. I santi sono persone ascetiche che si dedicano alla «vita contemplativa», distaccando se stessi dalla «vita activa». Dal momento che la salvezza dell’anima veniva considerata più importante di quella del corpo, gli impulsi fisici dello stesso furono intenzionalmente trascurati o persino soppressi. La dicotomia tra corpo e anima, tra fisico e spirituale, è ancora presente nel pensiero di molti credenti. Sono ancora molti coloro che associano la redenzione solo all’anima e non al corpo umano. La missione della chiesa consisterebbe nel «salvare le anime», perché sono più importanti dei corpi. Conrad Bergendoff afferma: «I vangeli non offrono nessuna base per una teoria di redenzione che salvi le anime separatamente dai corpi. Quello che Dio ha congiunto, filosofi e teologi non dovrebbero separare. Essi sono colpevoli di aver decretato il divorzio tra corpo e anima che Dio, invece, ha unito alla creazione; la loro colpa, poi, non diminuisce quando si scusano asserendo che la salvezza è, così, facilitata. Fino a quando l’essere umano non riconoscerà una teoria di redenzione che soddisfi tutte le sue aspettative, non capirà le ragioni per cui Cristo si sia incarnato per salvare l’umanità».

L’origine del secolarismo

Alcuni studiosi affermano che il dualismo classico è stato determinante per la genesi del secolarismo moderno e per l’erosione progressiva dell’influenza cristiana sulla società e la cultura. Essi trovano una correlazione tra il secolarismo moderno che esclude la religione dalla vita, e la distinzione tra corpo e anima del cristianesimo tradizionale. Essi vedono anche un collegamento tra secolarismo e distinzione tra natura e grazia come particolarmente sostenuto da Tommaso D’Aquino. Secondo quest’ultimo, la ragione naturale è sufficiente per vivere la vita naturale in questo mondo, mentre c’è bisogno della grazia per vivere una vita spirituale e raggiungere la meta della salvezza. Così, la divisione della scolastica su corpo-anima ha permesso alla vita di essere divisa in due compartimenti diversi: «vita activa» e «vita contemplativa» o, si potrebbe dire, «vita secolare e vita spirituale». Questa distinzione ha progressivamente condotto alla convinzione che il cristianesimo dovrebbe preoccuparsi della salvezza delle anime delle persone, mentre lo Stato dovrebbe essere responsabile della cura del corpo. Questo significa che lo Stato, e non la chiesa, dovrebbe preoccuparsi dell’educazione, della scienza, della tecnologia, dei sistemi economici, dei problemi sociali e politici, della cultura in generale e dei valori pubblici.

Dualismo nella liturgia

L’influsso del dualismo è rintracciabile in molti inni cristiani, nelle preghiere e nelle poesie. La frase iniziale della preghiera di sepoltura, che si trova nel Libro delle Preghiere della chiesa d’Inghilterra, è totalmente dualistica: «Poiché è piaciuto al Dio onnipotente, nella sua grande misericordia, di prendere con sé l’anima del nostro caro fratello che ci ha lasciato, noi, adesso, affidiamo il suo corpo alla terra». Una frase, in un’altra preghiera dello stesso servizio funebre, rivela un chiaro apprezzamento dualistico: «Le anime dei fedeli, dopo essere state salvate dal peso della carne, sono nella gioia e nella felicità». La nozione platonica della liberazione dell’anima, prigione del corpo, è chiaramente espressa nei versi del poeta John Donne: «Come i corpi nella tomba scendono, dalla tomba le anime si sollevano». Molti inni sono permeati di pensieri dualistici sottilmente travestiti. In essi viene spesso chiesto di vedere questa vita presente come un «gravoso pellegrinaggio» e di cercare eventualmente rifugio in cielo, «su, di sopra, in alto». Esempi di inni che manifestino ostilità verso questa vita terrena, l’evasione religiosa e l’essere di un altro mondo, possono essere trovati facilmente negli innari della maggior parte delle denominazioni cristiane. Alcuni inni ritraggono questa terra come una prigione dalla quale il credente viene liberato per ascendere alla casa celeste. «La casa di mio Padre è costruita in alto,/ lontana, sopra il cielo stellato;/ quando, liberato da questa prigionia terrena,/ quella residenza celeste sarà mia». Altri inni descrivono il cristiano come uno straniero che non vede l’ora di lasciare questo mondo: «Qui in questo paese così scuro e triste,/ per molto ho vagato abbandonato e stanco». Oppure «Son straniero in questa terra,/ sta la patria mia nel ciel!/ Questo mondo mi fa guerra,/sta la patria mia nel ciel!».

I cristiani che credono alle parole di questi inni potrebbero, un giorno, essere delusi scoprendo che la loro dimora eterna non è «sopra il mondo... sul tavolato del cielo», ma qua sotto, su questa terra. Questo è il pianeta che Dio ha creato, redento e che alla fine restaurerà per l’eterna dimora dei salvati. Le vaste implicazioni dottrinali e pratiche dell’idea dualistica della natura umana possono aiutare il lettore a riconoscere l’importanza di questo studio: non si tratta di una mera questione accademica, ma si indaga su un insegnamento biblico fondamentale che ha ripercussioni dirette e indirette su molte altre convinzioni e pratiche cristiane.

2. Implicazioni dell’uomo biblico

Dignità del corpo

L’uomo, essere completo in cui il corpo e l’anima costituiscono un’unità indissolubile, creato e redento da Dio, ha l’obbligo di vedere la dignità anche negli aspetti fisici della vita oltre che in quelli spirituali. Si onora Dio non soltanto con la mente, ma anche con il corpo, perché il nostro corpo è «il tempio dello Spirito Santo» (1 Cor 6:19). La Scrittura ci esorta a presentare i nostri corpi come «sacrificio vivente» (Rm 12:1). Questo significa che non solo la mente agisce sul corpo, ma

che anche il corpo può influenzare i nostri pensieri. L’ecologia della persona non riguarda solo i pensieri negativi, ma anche le abitudini quotidiane e lo stile di vita (droghe, alcol, tabacco possono avvelenare non solo i nostri corpi ma anche i pensieri e le relazioni). Henlee H. Barnette nota che «quello che le persone sono disposte a fare agli altri, per gli altri, con gli altri e al proprio ambiente, dipende in buona misura da quello che pensano di Dio, della natura, di se stessi e del destino».

La persona intera

Il concetto dell’uomo secondo la Bibbia incoraggia tutti ad avere rispetto per la persona intera. Nella predicazione, nell’insegnamento e nella missione la chiesa deve rispondere non solo alle esigenze spirituali dell’anima, ma anche a quelle fisiche. È compito della chiesa salvaguardare il creato e rispettare la persona, in modo che ogni credente possa ricercare la salute fisica, emotiva e spirituale. Nella missione evangelistica la chiesa non si occuperà solo delle «anime», ma anche delle condizioni di vita, della prevenzione, della salute, dell’alimentazione e dell’educazione. Lo scopo dovrebbe essere quello di servire al meglio il mondo, non di evitarlo, chiudendosi in uno spazio sacro. I problemi della giustizia sociale, della guerra, del razzismo, della povertà e dello squilibrio economico riguardano tutti i credenti perché essi credono che Dio operi per restaurare l’uomo e il mondo intero. L’educazione cristiana dovrebbe promuovere lo sviluppo della persona nella sua completezza. La formazione scolastica dovrebbe mirare non solo allo sviluppo intellettivo, ma anche a quello fisico e spirituale. Un buon programma di educazione fisica dovrebbe essere considerato importante quanto quelli accademici e religiosi. I genitori e gli educatori dovrebbero fornire le nozioni basilari per acquisire buone abitudini alimentari, per prendersi cura del proprio corpo e per svolgere un programma di esercizi fisici regolari. La visione biblica della persona ha anche implicazioni di carattere medico. La scienza medica ha recentemente sviluppato quella che è nota come «medicina integrata». Professionisti «integrali» della salute «enfatizzano la necessità di curare l’intera persona, inclusa la condizione fisica, la nutrizione, lo stato emotivo, lo stato spirituale, i valori dello stile di vita e dell’ambiente».

Nel 1975, durante la prolusione accademica alla facoltà di medicina dell’università John Hopkins, il dott. Jerome D. Frank disse ai suoi allievi: «Qualsiasi trattamento di una malattia che non inglobi anche lo spirito umano, è grandemente insufficiente».19 Il mantenimento della salute fisica e la sua eventuale guarigione in caso di malattia, dovranno sempre coinvolgere l’intera persona.

La redenzione del cosmo

L’uomo biblico presuppone anche un aspetto cosmico della redenzione che racchiude il corpo, l’anima, il mondo materiale e spirituale. La separazione tra il corpo e l’anima o lo spirito hanno spesso portato alla divisione tra il regno della creazione e il regno della redenzione. Quest’ultima ha privilegiato in larga misura, sia nel cattolicesimo sia nel protestantesimo, la salvezza delle singole anime a scapito della dimensione fisica e cosmica della redenzione. I santi sono spesso ritratti come pellegrini che vivono sulla terra ma distaccati dal mondo e le cui anime, alla morte, lasciano immediatamente i loro corpi materiali per ascendere a un luogo astratto chiamato «cielo» o «paradiso». Questo concetto riflette il dualismo classico, ma non tiene conto del pensiero biblico circa il creato. Se, come abbiamo visto, il dualismo tradizionale ha prodotto disprezzo verso il corpo e il mondo naturale, se i credenti continuano a cantare «son straniero in questa terra,/ sta la patria mia nel ciel», creando una sorta di separazione tra il mondo dello spirito e quello fisico, nel leggere i salmi non troviamo alcun disprezzo per la terra. Nel salterio ebraico si cantavano, e ancora si leggono, le lodi al Signore per le sue opere magnifiche. Davide dice: «Io ti loderò, perché sono stato creato in modo stupendo. Meravigliose sono le tue opere, e ’anima mia lo sa molto bene» (Sal 139:14). Il salmista loda Dio per il suo corpo meraviglioso, un fatto saputo molto bene dalla sua anima (la sua mente). Questo è un buon esempio del pensiero unitario, dove il corpo e l’anima fanno parte della meravigliosa creazione di Dio. Nel Salmo 92, il salmista invita a lodare Dio con strumenti musicali, dicendo: «Poiché m’hai rallegrato con le tue meraviglie, o SIGNORE; io canto di gioia per le opere delle tue mani. Come sono grandi le tue opere, o SIGNORE! Come sono profondi i tuoi pensieri!» (Sal 92:4,5). L’allegrezza del salmista per il suo corpo meraviglioso e per la magnificenza della creazione è basata sulla sua concezione unitaria del mondo, creato come parte integrante dell’intera opera della creazione e della redenzione.

Realismo biblico

L’insegnamento biblico circa la natura umana si ripercuote anche sul nostro modo di vedere il mondo futuro. La Bibbia descrive il mondo avvenire, non come un paradiso etereo dove le anime glorificate trascorreranno l’eternità vestite di tuniche bianche, cantando, suonando arpe, pregando, inseguendo nubi e bevendo latte di ambrosia. La Bibbia, al contrario, parla di santi risuscitati che abitano su questo pianeta purificato, trasformato e perfezionato con la venuta del Signore (cfr. 2 Pt 3:11,13; Rm 8:19,25; Ap 21:1). I «nuovi cieli e la nuova terra» (Is 65:17) non sono affatto un ritiro spirituale remoto fra spazi siderali non meglio definiti, ma indicano il presente cielo e la terra odierna riportati alla loro perfezione originale. I credenti entrano nella nuova terra non come anime disincarnate, ma come persone risuscitate (cfr. Ap 20:4; Gv 5:28,29; 1 Ts 4:14,17). Sebbene nulla di impuro entrerà nella nuova Gerusalemme, viene detto che «i re della terra porteranno la loro gloria [alla luce]... e porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni» (Ap 21:24,26). Questi versetti suggeriscono che tutto quello che ha vero valore nell’antico cielo e sulla vecchia terra, inclusi i successi dell’abilità inventiva, artistica e intellettuale dell’uomo, troveranno posto nell’ordine eterno. L’immagine stessa di «città» trasmette l’idea di abilità, vitalità, creatività e relazioni reali.

3. La «persona vivente»

«Dio il SIGNORE formò l'uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale e l'uomo divenne un essere vivente» (Genesi 2:7).

Non deve sorprendere che questo testo costituisca il fondamento per la riflessione concernente la natura umana. Esso è, dopo tutto, l’unico racconto biblico che informi su come Dio abbia creato l’uomo. Il testo dice: «E il Signore Iddio formò l’uomo della polvere della terra, e gli alitò nelle nari un fiato vitale; e l’uomo fu fatto anima vivente» (Diodati). La nuova Riveduta molto più correttamente traduce: «Dio il SIGNORE formò l’uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale e l’uomo divenne un essere vivente».

Storicamente, questo testo è stato letto attraverso le lenti del dualismo classico. È stato dato per scontato che l’alito di vita che Dio ha soffiato nelle narici dell’uomo fosse un’anima immateriale e immortale immessa da Dio nel corpo materiale. Alla luce di questa interpretazione, si sostiene che come la vita terrena ebbe inizio con l’innesto di un’anima immortale in un corpo fisico, così la fine avverrà quando l’anima lascerà il corpo. Genesi 2:7 è stato storicamente interpretato alla luce del dualismo tradizionale corpo-anima. Ciò che ha portato a questa errata e mistificante interpretazione va ricercato nel fatto che la parola ebraica nefesh, tradotta «anima» in Genesi 2:7, è stata intesa secondo la definizione tratta dal dizionario della lingua italiana: «Principio immateriale della vita dell’uomo contrapposta al corpo e tradizionalmente ritenuta immortale o addirittura partecipe del divino» o, ancora: «Principio spirituale incarnato in esseri umani».[1] Questa definizione riflette la concezione platonica dell’anima come essenza immateriale e immortale aggiunta al corpo, benché non ne faccia parte.

Purtroppo per molti questo presupposto costituisce la chiave di lettura dell’Antico Testamento e si comprende nefesh alla luce del dualismo platonico anziché del concetto biblico dell’uomo.

Come dice Claude Tresmontant: «Applicando all’ebraico nefesh (anima) le caratteristiche della psyche (anima) platonica, ... facciamo sì che il vero significato di nefesh (anima) ci sfugga e, inoltre, rimaniamo con innumerevoli falsi problemi».[2] 27

Coloro che interpretano le caratteristiche di nefesh nell’Antico Testamento (che nella versione inglese King James è tradotto «anima» ben 472 volte), partendo dal presupposto dualistico, avranno grande difficoltà a capire il concetto biblico unitario della natura umana, secondo il quale, corpo e anima costituiscono una manifestazione della stessa persona, vista da prospettive diverse.

Queste persone, ancora, avranno difficoltà ad accettare il significato biblico dell’anima intesa come principio vitale per la vita umana e animale. Inoltre, sarà per loro difficile spiegare quei brani che parlano del cadavere come di un’anima (nefesh) morta (cfr. Lev 19:28; 21:1,11; 22:4; Nm 5:2; 6:6,11; 9:6,7,10; 19:11,13; Ag 2:13). Per loro sarà inconcepibile che un’anima immortale possa morire con il corpo.

Il significato di «essere vivente»

La tesi comune che sostiene che l’anima umana sia immortale ha condotto molti a interpretare la frase «l’uomo divenne un’anima vivente» (Gn 2:7) con «l’uomo ottenne un’anima vivente». Questa interpretazione è stata messa in discussione da numerosi studiosi consapevoli della confusione nel saper cogliere la differenza tra la concezione grecodualistica e quella biblico-unitaria della natura umana.  Audrey Johnson, per esempio, ritiene che l’anima della Genesi indichi l’intero uomo, con una particolare sottolineatura alla sua coscienza e vitalità.[3] 

Johannes Pedersen, parlando della creazione dell’uomo nel suo studio ormai classico, Israele, scrive: «La base della sua essenza era la fragile sostanza corporea, ma, attraverso l’alito di Dio, fu trasformata e divenne nefesh, un’anima. Non è detto che l’uomo sia stato fornito di nefesh, e così la relazione tra il corpo e l’anima è abbastanza diversa da quella che noi percepiamo. Così com’è, l’uomo nella sua essenza totale, è un’anima».[4]

Pedersen dice ancora che «nell’Antico Testamento siamo sempre confrontati con il fatto che l’uomo, in quanto tale, sia un’anima. Abraamo partì per Canaan con le sue proprietà e con tutte le anime che aveva ottenuto (Gn 12:5) e, quando Abraamo prese il bottino nella sua spedizione bellica contro i re, il re di Sodoma lo esortò a restituire le anime e a tenere il bottino (Gn 14:21). Settanta anime della casa di Giacobbe scesero in Egitto (Gn 46:27; Es 1:5). Tutte le volte che si fa un

censimento si pone la domanda: «Quante anime ci sono? In questi, come in altri numerosi luoghi, potremmo sostituire persone con anime».[5]

Commentando Genesi 2:7, Hans Walter Wolff si chiede: «Che cosa significa in questo caso nefesh (anima)? Certamente non anima nel senso tradizionale dualistico. Nefesh dev’essere visto insieme con tutta la forma dell’uomo, e specialmente con il suo alito; inoltre, l’uomo non ha nefesh (anima), egli stesso è nefesh (anima), e vive come nefesh (anima)».[6]

Il fatto che l’anima nella Bibbia rappresenti l’intera persona vivente è riconosciuto persino dallo studioso cattolico Dom Wulstan Mork che si esprime con questi termini: «È la nefesh che dà vita a basar (carne), ma non facendone una nuova sostanza distinta. Adamo non ha nefesh; egli è nefesh, come è basar. Il corpo, lungi dall’esser distinto dal principio che lo anima, è la stessa nefesh visibile».[7]

Secondo una prospettiva biblica, il corpo e l’anima non sono due sostanze diverse (uno mortale e l’altra immortale) che abitano insieme dentro un essere umano, ma due caratteristiche della stessa persona. Pedersen riassume questo punto con l’affermazione che è diventata proverbiale: «Il corpo è l’anima nella sua forma esterna».[8]

Lo stesso concetto è espresso da H. Wheeler Robinson in un’affermazione molto famosa: «L’idea ebraica di personalità è quella di un corpo animato, non di un anima incarnata come presso i greci».[9]

Ricapitolando, si può affermare che l’espressione «l’uomo divenne un’anima vivente (nefesh hayyah)» non significa che alla creazione il suo corpo fosse stato dotato di un’anima immortale, di un’entità separata e distinta dal corpo, piuttosto significa che, grazie al soffio divino, l’uomo divenne un essere vivente capace di respirare, né più né meno.

Il cuore iniziò a battere, il sangue a circolare, il cervello a pensare e tutti i segni vitali furono attivati. Semplicemente, «un’anima vivente» corrisponde a «un essere vivente».

Le implicazioni pratiche di questa definizione sono messe in evidenza in modo chiaro da Dom Wulstan Mork: «Se l’uomo è nefesh, ciò vuol dire che è la sua nefesh che va a pranzo, che prende e mangia la sua bistecca. Quando vedo una persona non vedo solo il suo corpo, ma la sua nefesh visibile, perché, stando a Genesi 2:7, l’uomo è questo: una nefesh vivente. Si dice che “gli occhi sono le finestre dell’anima”; ecco una autentica espressione dicotomica. Gli occhi, in quanto appartengono

a una persona vivente sono in se stessi la rivelazione dell’anima».[10]

Anche gli animali sono «anime viventi»

Il significato di «anima vivente» inteso come «essere vivente» è incoraggiato anche dall’uso della stessa frase applicata, però, agli animali. Nelle nostre traduzion,i in genere l’espressione appare per la prima volta in Genesi 2:7, quando si descrive la creazione di Adamo. Si deve, però, prestare attenzione poiché non è qui l’unica volta che si trova nella Bibbia ebraica. È anche presente in Genesi 1:20,21,24,30. In tutti e quattro questi versi, «anima vivente» (nefesh hayyah) si riferisce agli animali, ma la maggior parte dei traduttori ha scelto di tradurla con «creatura vivente». La stessa cosa è vera in molti altri passi dopo Genesi 2:7, dove è riferita agli animali come a «creature viventi» piuttosto che come «anime viventi» (Gn 2:19; 9:10,12,15,16; Lv 11:46).

Perché i traduttori nella maggior parte delle versioni traducono la stessa frase ebraica nefesh hayyah come «anima vivente» quando si riferisce all’uomo e «creature viventi» quando si riferisce agli animali? La ragione è semplice. Sono condizionati dalla convinzione che gli esseri umani abbiano un’anima immateriale e immortale, mentre gli animali non ce l’hanno. Di conseguenza, utilizzano la parola «anima» per l’uomo e «creatura» per l’animale nel tradurre la stessa parola ebraica nefesh.

Norman Snaith trova questo «spiacevole» e dice: «È necessario riprendere severamente i traduttori della versione autorizzata, perché hanno mantenuto questa ingannevole differenza nella traduzione... La frase ebraica dovrebbe essere tradotta nello stesso modo in ambedue i casi. Agire diversamente, significa ingannare tutti coloro che non leggono l’ebraico. Non hanno nessuna scusa, non possono essere difesi. La tendenza di leggere “anima immortale” nella parola ebraica nefesh e di tradurla in modo erroneo, è molto antica, e può essere trovata nella Septuaginta...».[11]

Basil F. Atkinson, ex bibliotecario dell’Università di Cambridge, offre la stessa spiegazione: «I nostri traduttori (della versione autorizzata), hanno celato questo fatto, presumibilmente perché erano succubi delle nozioni teologiche correnti a proposito del significato della parola “anima”, e non hanno osato tradurla con una parola ebraica corrispondente quando si riferiva agli animali, benché l’abbiano usata ai margini dei versetti 20 e 30. In questi versetti si trova “creature che si muovono” e “anima vivente” (v. 20); “ogni anima vivente” (nefesh) secondo la sua specie” (v. 24); “e a ogni animale della terra, a ogni uccello del cielo, e a tutto ciò che si muove sulla terra, che ha in sé un’anima vivente (nefesh v. 30)”».[12]

L’uso del termine nefesh in questi versetti, con riferimento a tutti i tipi di animali, mostra chiaramente come non possa essere considerato un’anima immortale data all’uomo, ma un principio vitale o «il soffio di vita» dato agli esseri umani come agli animali. Entrambi sono caratterizzati in modo da distinguersi dalle piante. La ragione per cui le piante non siano definite come anime è presumibilmente da ricercare nel fatto che non hanno organi che permettano loro di respirare,

di provare dolore o gioia, o di muoversi per procurarsi cibo. Ciò che distingue l’anima umana da quella degli animali è da ricercarsi nel fatto che gli esseri umani sono stati creati all’immagine di Dio, e quindi con delle possibilità divine in più rispetto agli animali. Entrambi, l’uomo e l’animale, sono anime, questa è la verità che affiora.

Come dice Basil F. Atkinson:  «Essi (l’uomo e gli animali) non sono creature duplici con un corpo e un’anima che possa separarsi da esso e continuare a esistere. La loro anima è il loro tutto, vale a dire il corpo e le facoltà mentali. Si parla di loro come aventi anime, e cioè esseri coscienti, per distinguerli da oggetti inanimati che non hanno vita. Nello stesso modo possiamo dire in inglese che un uomo o un animale sia un essere cosciente o abbia un essere conscio».[13]

Il termine anima è usato per entrambi, persone e animali, perché entrambi sono esseri consapevoli. Entrambi condividono lo stesso principio vitale o «il soffio di vita».

Conclusione

Scrive G. Marrazzo «La Scrittura non considera l’uomo un essere immortale né attribuisce immortalità all’anima. L’aggettivo «immortale», che si trova una sola volta nella Bibbia, è attribuito a Dio: «Al Re eterno, immortale, invisibile, all’unico Dio, siano onore e gloria nei secoli dei secoli» (1 Timoteo 1:17). Il sostantivo «immortalità», citato cinque volte, non è mai riferito alla condizione attuale dell’uomo.

In 1 Timoteo, l’apostolo Paolo afferma chiaramente che «Dio solo possiede l’immortalità» (6:15,16). L’uomo non può dirsi immortale per natura. Dio, dopo averlo creato, gli disse: «Ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non ne mangiare; perché nel giorno che tu ne mangerai, certamente morirai» (Genesi 2:17). Invece l’uomo disobbedì andando incontro alla morte («Il salario del peccato è la morte» Romani 6:23).

Se l’uomo non avesse peccato avrebbe goduto dell’immortalità; ma cadendo, divenne soggetto alla morte. Tuttavia Dio, come già sappiamo, non ha lasciato le sue creature senza speranza. Cristo è venuto su questa terra proprio per restituire all’umanità la possibilità di avere la vita, la vita eterna, l’immortalità. Molte sono le dichiarazioni bibliche al riguardo: «Perché il salario del peccato è la morte, ma il dono di Dio è la vita eterna in Cristo Gesù, nostro Signore» (Romani 6:23).

«Perché Dio ha tanto amato il mondo, che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca, ma abbia vita eterna» (Giovanni 3:16). «Chi crede nel Figlio ha vita eterna, chi invece rifiuta di credere al Figlio non vedrà la vita, ma l’ira di Dio rimane su di lui» (Giovanni 3:36). «Il quale ha distrutto la morte e ha messo in luce la vita e l’immortalità mediante il vangelo» (2 Timoteo 1:10). «Dio renderà a ciascuno secondo le sue opere: vita eterna a quelli che con perseveranza nel fare il bene cercano gloria, onore e immortalità» (Romani 2:7).

L’immortalità dell’uomo è ora condizionata all’accettazione della salvezza in Cristo mediante la fede. Essa diventerà realtà dopo la risurrezione».[14]

Nota:

Questo studio, esclusa la parte conclusiva, è stato tratto dal libro “Immortalità o Risurrezione?”, di Samuele Bacchiocchi, teologo, della Andrews University, Michigan, U.S.A., ed. AdV, Impruneta, (FI).

[1] G. DEVOTO E G.C. OLI, Nuovo vocabolario illustrato della lingua italiana, Selezione dal Reader’s Digest, vol. 1, Milano, 1987 p. 139. Webster’s New Collegiate Dictionary, 1974, voce: «Soul».

[2] C. TRESMONTANT, A Study in Hebrew Thought, New York, 1960, p. 94. È il migliore studio per comprendere la differenza tra il pensiero ebraico e quello greco. Titolo originale Essai sur la pensée hébraïque, Paris, Cerf, 1962, p. 97.

[3] A. JOHNSON, The Vitality of the Individual in the Thought of Ancient Israel, Cardiff, Wales, 1964, p. 19.

[4] J. PEDERSEN, Israel: Its Life and Culture, London, 1926, Vol. 1, p. 99.

[5] Ibid., pp. 99,100.

[6] H.W. WOLFF, Antropologia dell’Antico Testamento, (trad. E. Buli), Brescia, Queriniana, 1975, p. 18.

[7] W. MORK, Linee di antropologia biblica, (trad. L. Bono), Fossano, ed. Esperienza, 1971, p. 48.

 

[8] J. PEDERSEN, Op. cit., p. 171.

[9] H.W. ROBINSON, The Christian Doctrine of Man, Edinburg, 1952, p. 27.

[10] W. MORK, Op. cit. pp. 48,49.

[11] N. SNAITH, «Justice and Immortality» in Scottish Journal of Theology 17/3, settembre 1964, pp. 312,313.

[12] B.F.C. ATKINSON, Life and Immortality, London, pp. 1,2.

[13] .F.C. ATKINSON, Op.cit., p. 2.

[14] Giuseppe Marrazzo, Ascolta la Parola, ed. AdV, Impruneta (Fi), 204, p. 179,180