01. Il termine nefesh nell’Antico Testamento

01. Il termine nefesh nell’Antico Testamento

La «persona vivente»

La seconda importante affermazione biblica per capire la natura umana si trova in Genesi 2:7. Non deve sorprendere che questo testo costituisca il fondamento per la riflessione concernente la natura umana. Esso è, dopo tutto, l’unico racconto biblico che informi su come Dio abbia creato l’uomo. Il testo dice: «E il Signore Iddio formò l’uomo della polvere della terra, e gli alitò nelle nari un fiato vitale; e l’uomo fu fatto anima vivente» (Diodati). La nuova Riveduta molto più correttamente traduce: «Dio il SIGNORE formò l’uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale e l’uomo divenne un essere vivente».

Storicamente, questo testo è stato letto attraverso le lenti del dualismo classico. È stato dato per scontato che l’alito di vita che Dio ha soffiato nelle narici dell’uomo fosse un’anima immateriale e immortale immessa da Dio nel corpo materiale. Alla luce di questa interpretazione, si sostiene che come la vita terrena ebbe inizio con l’innesto di un’anima immortale in un corpo fisico, così la fine avverrà quando l’anima lascerà il corpo. Genesi 2:7 è stato storicamente interpretato alla luce del dualismo tradizionale corpo-anima. Ciò che ha portato a questa errata e mistificante interpretazione va ricercato nel fatto che la parola ebraica nefesh, tradotta «anima» in Genesi 2:7, è stata intesa secondo la definizione tratta dal dizionario della lingua italiana:

«Principio immateriale della vita dell’uomo contrapposta al corpo e tradizionalmente ritenuta immortale o addirittura partecipe del divino» o, ancora: «Principio spirituale incarnato in esseri umani».[1]

Questa definizione riflette la concezione platonica dell’anima come essenza immateriale e immortale aggiunta al corpo, benché non ne faccia parte.

Purtroppo per molti questo presupposto costituisce la chiave di lettura dell’Antico Testamento e si comprende nefesh alla luce del dualismo platonico anziché del concetto biblico dell’uomo.

Come dice Claude Tresmontant: «Applicando all’ebraico nefesh (anima) le caratteristiche della psyche (anima) platonica, ... facciamo sì che il vero significato di nefesh (anima) ci sfugga e, inoltre, rimaniamo con innumerevoli falsi problemi».[2]

Coloro che interpretano le caratteristiche di nefesh nell’Antico Testamento (che nella versione inglese King James è tradotto «anima» ben 472 volte), partendo dal presupposto dualistico, avranno grande difficoltà a capire il concetto biblico unitario della natura umana, secondo il quale, corpo e anima costituiscono una manifestazione della stessa persona, vista da prospettive diverse.

Queste persone, ancora, avranno difficoltà ad accettare il significato biblico dell’anima intesa come principio vitale per la vita umana e animale. Inoltre, sarà per loro difficile spiegare quei brani che parlano del cadavere come di un’anima (nefesh) morta (cfr. Lev 19:28; 21:1,11; 22:4; Nm 5:2; 6:6,11; 9:6,7,10; 19:11,13; Ag 2:13).

Per loro sarà inconcepibile che un’anima immortale possa morire con il corpo.

Il significato di «essere vivente»

La tesi comune che sostiene che l’anima umana sia immortale ha condotto molti a interpretare la frase «l’uomo divenne un’anima vivente» (Gn 2:7) con «l’uomo ottenne un’anima vivente». Questa interpretazione

è stata messa in discussione da numerosi studiosi consapevoli della confusione nel saper cogliere la differenza tra la concezione grecodualistica e quella biblico-unitaria della natura umana.

Audrey Johnson, per esempio, ritiene che l’anima della Genesi indichi l’intero uomo, con una particolare sottolineatura alla sua coscienza e vitalità.[3]

Johannes Pedersen, parlando della creazione dell’uomo nel suo studio ormai classico, Israele, scrive: «La base della sua essenza era la fragile sostanza corporea, ma, attraverso l’alito di Dio, fu trasformata e divenne nefesh, un’anima. Non è detto che l’uomo sia stato fornito di nefesh, e così la relazione tra il corpo e l’anima è abbastanza diversa da quella che noi percepiamo. Così com’è, l’uomo nella sua essenza totale, è un’anima».[4]

Pedersen dice ancora che «nell’Antico Testamento siamo sempre confrontati con il fatto che l’uomo, in quanto tale, sia un’anima. Abraamo partì per Canaan con le sue proprietà e con tutte le anime che aveva ottenuto (Gn 12:5) e, quando Abraamo prese il bottino nella sua spedizione bellica contro i re, il re di Sodoma lo esortò a restituire le anime e a tenere il bottino (Gn 14:21). Settanta anime della casa di Giacobbe scesero in Egitto (Gn 46:27; Es 1:5). Tutte le volte che si fa un censimento si pone la domanda: «Quante anime ci sono? In questi, come in altri numerosi luoghi, potremmo sostituire persone con anime».[5]

Commentando Genesi 2:7, Hans Walter Wolff si chiede: «Che cosa significa in questo caso nefesh (anima)? Certamente non anima nel senso tradizionale dualistico. Nefesh dev’essere visto insieme con tutta la forma dell’uomo, e specialmente con il suo alito; inoltre, l’uomo non ha nefesh (anima), egli stesso è nefesh (anima), e vive come nefesh (anima)».[6]

Il fatto che l’anima nella Bibbia rappresenti l’intera persona vivente è riconosciuto persino dallo studioso cattolico Dom Wulstan Mork che si esprime con questi termini: «È la nefesh che dà vita a basar (carne), ma non facendone una nuova sostanza distinta. Adamo non ha nefesh; egli è nefesh, come è basar. Il corpo, lungi dall’esser distinto dal principio che lo anima, è la stessa nefesh visibile».[7]

Secondo una prospettiva biblica, il corpo e l’anima non sono due sostanze diverse (uno mortale e l’altra immortale) che abitano insieme dentro un essere umano, ma due caratteristiche della stessa persona. Pedersen riassume questo punto con l’affermazione che è diventata proverbiale: «Il corpo è l’anima nella sua forma esterna».[8]

Lo stesso concetto è espresso da H. Wheeler Robinson in un’affermazione molto famosa: «L’idea ebraica di personalità è quella di un corpo animato, non di un anima incarnata come presso i greci».[9]

Ricapitolando, si può affermare che l’espressione «l’uomo divenne un’anima vivente (nefesh hayyah)» non significa che alla creazione il suo corpo fosse stato dotato di un’anima immortale, di un’entità separata e distinta dal corpo, piuttosto significa che, grazie al soffio divino, l’uomo divenne un essere vivente capace di respirare, né più né meno.

Il cuore iniziò a battere, il sangue a circolare, il cervello a pensare e tutti i segni vitali furono attivati. Semplicemente, «un’anima vivente» corrisponde a «un essere vivente». Le implicazioni pratiche di questa definizione sono messe in evidenza in modo chiaro da Dom Wulstan Mork: «Se l’uomo è nefesh, ciò vuol dire che è la sua nefesh che va a pranzo, che prende e mangia la sua bistecca. Quando vedo una persona non vedo solo il suo corpo, ma la sua nefesh visibile, perché, stando a Genesi 2:7, l’uomo è questo: una nefesh vivente. Si dice che “gli occhi sono le finestre dell’anima”; ecco una autentica espressione dicotomica. Gli occhi, in quanto appartengono a una persona vivente sono in se stessi la rivelazione dell’anima».[10]

Anche gli animali sono «anime viventi»

Il significato di «anima vivente» inteso come «essere vivente» è incoraggiato anche dall’uso della stessa frase applicata, però, agli animali. Nelle nostre traduzioni in genere l’espressione appare per la prima volta in Genesi 2:7, quando si descrive la creazione di Adamo. Si deve, però, prestare attenzione poiché non è qui l’unica volta che si trova nella Bibbia ebraica. È anche presente in Genesi 1:20,21,24,30. In tutti e quattro questi versi, «anima vivente» (nefesh hayyah) si riferisce agli animali, ma la maggior parte dei traduttori ha scelto di tradurla con «creatura vivente». La stessa cosa è vera in molti altri passi dopo Genesi 2:7, dove è riferita agli animali come a «creature viventi» piuttosto che come «anime viventi» (Gn 2:19; 9:10,12,15,16; Lv 11:46).

Perché i traduttori nella maggior parte delle versioni traducono la stessa frase ebraica nefesh hayyah come «anima vivente» quando si riferisce all’uomo e «creature viventi» quando si riferisce agli animali?

La ragione è semplice. Sono condizionati dalla convinzione che gli esseri umani abbiano un’anima immateriale e immortale, mentre gli animali non ce l’hanno. Di conseguenza, utilizzano la parola «anima» per l’uomo e «creatura» per l’animale nel tradurre la stessa parola ebraica nefesh.

Norman Snaith trova questo «spiacevole» e dice: «È necessario riprendere severamente i traduttori della versione autorizzata, perché hanno mantenuto questa ingannevole differenza nella traduzione... La frase ebraica dovrebbe essere tradotta nello stesso modo in ambedue i casi. Agire diversamente, significa ingannare tutti coloro che non leggono l’ebraico. Non hanno nessuna scusa, non possono essere difesi. La tendenza di leggere “anima immortale” nella parola ebraica nefesh e di tradurla in modo erroneo, è molto antica, e può essere trovata nella Septuaginta...».[11]

Basil F. Atkinson, ex bibliotecario dell’Università di Cambridge, offre la stessa spiegazione: «I nostri traduttori (della versione autorizzata), hanno celato questo fatto, presumibilmente perché erano succubi delle nozioni teologiche correnti a proposito del significato della parola “anima”, e non hanno osato tradurla con una parola ebraica corrispondente quando si riferiva agli animali, benché l’abbiano usata ai margini dei versetti 20 e 30. In questi versetti si trova “creature che si muovono” e “anima vivente” (v. 20); “ogni anima vivente” (nefesh) secondo la sua specie” (v. 24); “e a ogni animale della terra, a ogni uccello del cielo, e a tutto ciò che si muove sulla terra, che ha in sé un’anima vivente (nefesh v. 30)”».[12]

L’uso del termine nefesh in questi versetti, con riferimento a tutti i tipi di animali, mostra chiaramente come non possa essere considerato un’anima immortale data all’uomo, ma un principio vitale o «il soffio di vita» dato agli esseri umani come agli animali. Entrambi sono caratterizzati in modo da distinguersi dalle piante. La ragione per cui le piante non siano definite come anime è presumibilmente da ricercare nel fatto che non hanno organi che permettano loro di respirare, di provare dolore o gioia, o di muoversi per procurarsi cibo. Ciò che distingue l’anima umana da quella degli animali è da ricercarsi nel fatto che gli esseri umani sono stati creati all’immagine di Dio, e quindi con delle possibilità divine in più rispetto agli animali.

Entrambi, l’uomo e l’animale, sono anime, questa è la verità che affiora. Come dice Basil F. Atkinson: «Essi (l’uomo e gli animali) non sono creature duplici con un corpo e un’anima che possa separarsi da esso e continuare a esistere. La loro anima è il loro tutto, vale a dire il corpo e le facoltà mentali. Si parla di loro come aventi anime, e cioè esseri coscienti, per distinguerli da oggetti inanimati che non hanno vita. Nello stesso modo possiamo dire in inglese che un uomo o un animale sia un essere cosciente o abbia un essere conscio».[13]

Il termine anima è usato per entrambi, persone e animali, perché entrambi sono esseri consapevoli. Entrambi condividono lo stesso principio vitale o «il soffio di vita».

Che cos’è l’anima?

Fin qui abbiamo esaminato la natura umana presentata nella Genesi alla luce dell’espressione: l’uomo è stato creato «a immagine di Dio» ed è diventato una «persona vivente». Come abbiamo visto, i due testi fondamentali circa la creazione degli esseri umani non consentono un’interpretazione dualistica della natura umana; al contrario corpo, anima, alito vitale non sono entità separate, ma caratteristiche della persona vivente. Il corpo è l’essere tangibile; l’anima è l’individuo vivente; l’alito di vita, lo spirito, è la persona in relazione con Dio. Per provare la validità di questa ipotesi di partenza, si rende necessario l’esame dei quattro termini chiave della natura umana: anima, corpo, cuore e spirito, nell’Antico Testamento.

Lo studio iniziale sul significato di nefesh nel contesto della creazione, ha mostrato come la parola sia usata per designare il principio vitale, presente tanto negli esseri umani quanto negli animali. A questo punto, è necessario esplorare l’uso più ampio di nefesh nell’Antico Testamento che troviamo ben 754 volte ed è tradotto in 45 modi diversi.[14] Si porrà attenzione ai tre maggiori usi del termine nefesh: persona bisognosa, sede delle emozioni e della personalità.

Persona bisognosa

In Antropologia dell’Antico Testamento, uno studio analitico da tutti riconosciuto come pregevole, Hans W. Wolff intitola il capitolo sull’anima «Nefesh l’uomo bisognoso».[15] La ragione di nefesh come «uomo bisognoso» diventa evidente quando si leggono i molti testi che illustrano nefesh (anima) in situazioni ed esperienze di vita o di morte.

Poiché Dio creò l’uomo che divenne «un’anima vivente», vale a dire da lui sostenuta, gli ebrei, quando si trovavano in pericolo, si rivolgevano a Dio per ottenere la salvezza dell’anima, la loro vita. Davide pregò: «Liberami (nafeshi anima mia) dall’empio» (Sal 17:13). «Nella tua giustizia libera l’anima mia dalla tribolazione!» (Sal 143:11). Il Signore è degno di lode, «perché egli libera il povero (la nefesh del bisognoso) dalla mano dei malfattori!» (Ger 20:13).

Le persone temevano per le proprie anime (nefesh) (Gs 9:24) quando altri cercavano le loro anime (nefesh) (Es 4:19; 1 Sm 23:15). Dovevano fuggire per le loro anime (nefesh) (2 Re 7:7) o difendere le loro anime (nefesh) (Es 8:9); se non lo facevano, le loro anime (nefesh) sarebbero state totalmente distrutte (Gs 10:28,30,32,35,37,39). «L’anima che pecca, morrà» (Ez 18:4,20). Rahab chiese ai due esploratori israeliti di salvare la sua famiglia e «liberare le nostre anime (nefesh) dalla morte» (Gs 2:13). In questi casi, è evidente che l’anima era in pericolo e la vita dell’individuo aveva bisogno di essere liberata.

L’anima sperimentava il pericolo non solo per la presenza di nemici, ma anche per la mancanza di cibo. Lamentando lo stato di Gerusalemme, Geremia dice: «Tutto il suo popolo sospira, cerca pane; dà le cose sue più preziose in cambio di cibo, per poter sopravvivere» (letteralmente «per alleviare l’anima») (Lam 1:11).

Gli israeliti mormoravano nel deserto perché non avevano più la carne come in Egitto: «E ora siamo inariditi (la nostra anima è inaridita); non c’è più nulla! I nostri occhi non vedono altro che questa manna» (Nm 11:6). Il digiuno aveva implicazioni per l’anima perché rifiutava il nutrimento di cui l’anima aveva bisogno. Nel giorno dell’espiazione, agli israeliti era richiesto di «affliggere le loro anime» (Lv 16:29), digiunando. Si astenevano dal cibo per dimostrare che le loro anime dipendevano da Dio sia per il nutrimento fisico sia per la salvezza spirituale. Tory Hoff scrive: «Agli israeliti era chiesto di digiunare nel giorno dell’espiazione perché la loro vita doveva essere purificata tramite lo spargimento di sangue (di una vita innocente) ed era la

provvidenza divina che sosteneva l’anima, nonostante il peccato».[16]

Il tema del pericolo e della liberazione associato all’anima (nefesh) permette di comprendere come l’anima fosse vista nell’Antico Testamento. Non già come un componente immortale della natura umana, ma come la condizione incerta e insicura della vita che, qualche volta, era minacciata di morte. Le situazioni che implicavano intenso pericolo e liberazione ricordavano agli israeliti che erano anime bisognose (nefesh), esseri viventi la cui vita dipendeva costantemente da Dio per protezione e liberazione.

Sede delle emozioni

Come principio vitale, l’anima agisce come centro delle attività emotive. Il profeta Eliseo, parlando della Sunamita disse: «Lasciala stare, poiché l’anima (nefesh) sua è amareggiata» (2 Re 4:27). Davide gridò al Signore, cercando liberazione dai suoi nemici, dicendo: «Anche la mia anima (nefesh) è grandemente afflitta; ...ritorna, o Signore, libera l’anima (nefesh) mia» (Sal 6:3,4). Mentre le persone aspettavano la liberazione di Dio, la loro anima perdeva vitalità.

Tory Hoff nota che «siccome il salmista spesso scriveva della sua esperienza (di pericolo), i salmi includono frasi come “l’anima veniva meno in loro” (Sal 107:5), “l’anima mia, dal dolore, si consuma in lacrime” (Sal 119:28), “l’anima mia vien meno nell’attesa della tua salvezza” (Sal 119:81), “l’anima mia langue e vien meno, sospirando i cortili del Signore” (Sal 84:2), “l’anima loro vien meno per l’angoscia” (Sal 107:26). Giobbe chiede: “Fino a quando mi (anima mia) affliggerete”? (19:2). Era anche l’anima che avrebbe aspettato la liberazione. “Solo in Dio trova riposo l’anima mia” (Sal 62:1). “Io aspetto il SIGNORE, l’anima mia lo aspetta, io spero nella sua parola” (Sal 130:5). L’israelita sapeva che ogni liberazione veniva da Dio, per questo la sua anima “cerca rifugio” in Dio (Sal 57:1) ed “è assetata” di lui (Sal 42:2; 63:1). Una volta che l’intenso pericolo era passato e la precaria situazione superata, l’anima lodava Dio per la liberazione ricevuta. “Io mi (anima mia) glorierò nel Signore; gli umili l’udranno e si rallegreranno” (Sal 34:2). “Allora l’anima mia esulterà nel SIGNORE e mi rallegrerò della sua salvezza” (Sal 35:9)».[17]

Questi passi che parlano dell’anima come sede di emozioni, sono mal compresi da coloro che accettano il presupposto dell’anima come entità immateriale legata al corpo e responsabile della vita emotiva e intellettuale dell’individuo. Il problema con quest’interpretazione è, come spiega Tory Hoff, che «l’anima è la sede dell’emozione non più di qualsiasi altro termine antropologico ebraico».[18]

In seguito si avrà modo di vedere che l’anima è soltanto uno dei centri emotivi perché il corpo, il cuore, le viscere e anche altre parti del corpo hanno questa stessa funzione.

Hans Wolff giustamente osserva che il contenuto emotivo dell’anima è l’individuo stesso o la persona e non un’entità indipendente. Egli cita, come esempio, i Salmi 42:5,11 e 43:5, dove si trova lo stesso ritornello di lamento e di esortazione: «Perché ti abbatti, anima mia? Perché ti agiti in me? Spera in Dio, perché lo celebrerò ancora; egli è il mio salvatore e il mio Dio». «Qui», scrive H. Wolff, «nefesh (anima) costituisce il fulcro della vita bisognosa assetata di desideri».[19] Nessuno di questi brani suggerisce che l’anima sia una parte immateriale della natura umana, con una sua personalità e coscienza, capace di sopravvivere alla morte. L’anima muore quando muore il corpo.

Sede della personalità

L’anima (nefesh) è vista nell’Antico Testamento non soltanto come la sede delle emozioni, ma anche come la sede della personalità. L’anima è la persona come individuo responsabile. In Michea 6:7 si legge: «Dovrò offrire il mio primogenito per la mia trasgressione, il frutto delle mie viscere per il mio (mia nefesh) peccato?». La parola ebraica tradotta qui con «viscere» è beten, che significa viscere, seno. Il contrasto non è assolutamente fra corpo e anima.

Nel commentare questo testo, Dom Wulstan Mork scrive: «Il senso del versetto non è che l’anima sia la fonte umana del peccato e il corpo il suo strumento. La causa del peccato è piuttosto la nefesh, tutta la persona vivente, e pertanto in questo versetto la responsabilità del peccato è attribuita alla nefesh come persona».[20]

La stessa idea è proposta in parecchi altri testi che parlano del peccato e della colpa. «Se qualcuno (nefesh) commette peccato per errore... » (Lv 4:2). «Una persona (nefesh) pecca se… non dichiara ciò che ha visto o ciò che sa. Porterà la propria colpa» (Lv 5:1). «Ma la persona (nefesh) che agisce con proposito deliberato… oltraggia il Signore; quella persona (nefesh) sarà eliminata dal mezzo del suo popolo» (Nm 15:30). «Ecco, tutte le vite (nefesh) sono mie... chi (nefesh) pecca morirà » (Ez 18:4). In testi come questi, l’anima è la persona che pensa, vuole ed è responsabile della propria condotta. «La nefesh nel suo insieme è coinvolta nel mangiare, nel camminare, nell’aver sete, nell’amare, nel pensare, perché la mentalità ebraica non distingue, assegnandole a organi diversi, le varie attività umane. Ogni atto è tutta la nefesh in azione, pertanto tutta la persona».[21] W. D. Stacey ha affermato: «La nefesh soffre, patisce la fame e pensa, perché ciascuna di queste funzioni implica tutta la personalità e non esiste distinzione tra la sfera emotiva e quella fisica o intellettuale».[22]

Nell’Antico Testamento l’anima e il corpo sono due manifestazioni della stessa persona. L’anima include e presume il corpo. Mork continua: «Gli antichi ebrei, infatti, non potevano nemmeno concepire l’una senza l’altro. Non esiste per loro la dicotomia greca di anima e corpo, come due sostanze che si oppongono, ma esiste una unità, l’uomo, che è basar per un aspetto e nefesh per un altro. Basar, dunque, è la realtà concreta dell’esistenza umana, nefesh ne è la personalità».[23]

Anima e morte

La sopravvivenza dell’anima nell’Antico Testamento è legata alla sopravvivenza del corpo, visto che il corpo è la manifestazione esterna dell’anima. Questo spiega perché la morte di una persona è spesso descritta come la morte dell’anima. «Quando sopraggiunge la morte» scrive J. Pedersen «è l’anima che è privata di vita. La morte non può colpire il corpo o qualsiasi altra parte dell’anima senza colpire la totalità della persona. Per questo si dice “uccidere un’anima” o “colpire un’anima” (cfr. Nm 31:19; 35:15,30; Gs 20:3,9); si dice anche “colpire uno per quanto riguarda l’anima”, cioè colpirlo così che l’anima sia uccisa (cfr. Gn 37:21; Dt 19:6,11; Ger 40:14,15). Non c’è nessun dubbio che è l’anima che muore, e tutte le teorie che tentano di negare questo fatto sono false. È detto deliberatamente che l’anima muore (cfr. Gdc 16:30; Nm 23:10), che è distrutta o consumata (cfr. Ez 22:25,27) e che si spegne (Gb 11:20)».[24]

I lettori della Bibbia potrebbero mettere in dubbio la validità dell’affermazione di J. Pedersen che l’anima muore, perché la parola «anima» non appare nel testo da lui citato. In Numeri 35:15 si parla delle città rifugio dove trovava scampo «chiunque avesse ucciso qualcuno (nefesh) involontariamente». Siccome la parola anima non appare nella maggior parte delle traduzioni, alcuni potrebbero concludere che il testo parli dell’uccisione del corpo e non di quella dell’anima. La verità è che nefesh si trova nell’ebraico, ma i traduttori di solito scelgono di tradurla con «persona», presumibilmente perché credono che l’anima sia immortale e non possa essere uccisa. In certi casi, i traduttori scambiano anima con pronomi personali.

I lettori di queste versioni non possono sapere in nessun modo che con il pronome si traduce il termine nefesh. Per esempio, uno dei testi citati da J. Pedersen è Deuteronomio 19:11 «Ma se un uomo odia il suo prossimo, gli tende insidie, lo assale, lo percuote in modo da causare la sua morte (lett. ferisce la nefesh mortalmente)…».

Pedersen cita i testi della Bibbia ebraica e non le traduzioni. La sua affermazione, allora, che «l’anima muore», riflette accuratamente ciò che si afferma nel testo ebraico. Inoltre, vi sono testi, persino nelle traduzioni, che parlano chiaramente della morte dell’anima. Per esempio, in Ezechiele 18:20 si legge: «L’anima che pecca, morrà» (cfr. anche Es 18:4).

La morte è vista nell’Antico Testamento come lo svuotamento dell’anima dalla sua vitalità e forza. «Ha dato se stesso alla morte (lett. Ha versato la sua anima)» (Is 53:12). «Versare la propria anima» traduce l’ebraico arah che significa «svuotare, scoprire, denudare». Questo significa che il servo sofferente di Yahweh svuotò se stesso di tutta la vitalità dell’anima. Alla morte, l’anima non agisce più come principio vitale, ma riposa nella tomba. «I morti» scrive J. Pedersen «sono anime prive di forza. Perciò i morti sono chiamati “i deboli” (rephaim). “Ora sei diventato debole”: con questo saluto viene ricevuto nel regno dei morti il defunto re dei babilonesi (Is 14:10). Il corpo morto è ancora un’anima, ma senza vita. Ai Nazirei non era permesso contaminarsi avvicinandosi “a un corpo morto” (Nm 6:6), o, come dice il testo ebraico “l’anima di un morto”. Allo stesso modo, i sacerdoti non dovevano contaminarsi avvicinandosi alle anime morte dei loro parenti (cfr. Lv 21:1,11; Nm 5:2; 9:6,7,10)».[25]

Il destino dell’anima è legato al destino del corpo. La distruzione del corpo è vista come la distruzione dell’anima. «Nella Bibbia», scrive Edmond Jacob, «nefesh si riferisce soltanto al cadavere prima della sua dissoluzione finale e mentre conserva lineamenti distinguibili».[26]

Quando il corpo è distrutto e consumato al punto che i lineamenti non siano più riconoscibili, allora l’anima non esiste più, perché «il corpo è l’anima nella sua forma esterna».[27] D’altra parte, quando il corpo è messo a riposo nella tomba con i padri, anche l’anima riposa e giace indisturbata (cfr. Gn 15:15; 25:8; Gdc 8:32; 1 Cr 29:28).

Il concetto veterotestamentario dell’anima che alla morte smetta di funzionare come principio vitale fa sorgere qualche interessante domanda a proposito dell’affermazione di Gesù: «Non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima» (Mt 10:28).

Questo testo sembra suggerire che la morte del corpo non comporti necessariamente la morte dell’anima, ma lo vedremo meglio quando esamineremo la natura dell’uomo nel Nuovo Testamento.

Separazione dell’anima

Oltre ai passi appena considerati e nei quali l’anima nefesh è associata alla morte, almeno due testi meritano una considerazione particolare perché parlano della separazione e del ritorno dell’anima. Il primo è in Genesi 35:18 che afferma che l’anima di Rachele «se ne andava» mentre stava per morire; il secondo, è in 1 Re 17:21,22, che racconta dell’anima del figlio della vedova che ritorna in lui. Questi due testi sono usati per sostenere l’idea che alla morte l’anima abbandoni il corpo e ritorni poi nel corpo alla risurrezione.

Nel suo libro La morte e la vita ultraterrena, Robert A. Morey cita questi due testi per sostenere la sopravvivenza dell’anima dopo la morte del corpo. Egli scrive: «Se gli autori della Scrittura non avessero creduto che l’anima lasci il corpo alla morte e vi ritorni alla resurrezione, non avrebbero usato questo tipo di fraseologia (separazione e ritorno dell’anima). Il loro modo di parlare rivela, in effetti, che l’uomo, alla fine, sarebbe sopravvissuto alla morte del corpo».[28]

È possibile giungere a simili conclusioni partendo da questi due testi? Esaminiamoli con attenzione! Nel descrivere il travaglio di Rachele, Genesi 35:18 dice: «Mentre l’anima sua se ne andava, perché stava morendo, chiamò il bimbo Ben-Oni; ma il padre lo chiamò Beniamino». Se si interpreta la frase «l’anima sua se ne andava» come se si trattasse dell’anima immortale di Rachele che stava per lasciare il suo corpo al momento della morte, questa risulterebbe contraria all’insegnamento di tutto l’Antico Testamento che dichiara che l’anima muore con la morte del corpo.

H.W. Wolff indica giustamente: «Vale la pena osservare che alla nefesh (anima) non è mai dato il significato di un centro indistruttibile dell’essere in contrapposizione alla vita fisica, e che sia in grado di vivere anche quando ne è separata. Quando è menzionata la “partenza” (Gn 35:18) della nefesh da un uomo, o il suo “ritorno” (Lam 1:11), l’idea fondamentale è quella di una nozione concreta della cessazione o della ripresa della respirazione».[29]

La frase «l’anima sua se ne andava» molto probabilmente significa che «il suo respiro stava cessando», oppure che stava esalando il suo ultimo respiro. È importante notare che il sostantivo «anima» derivi dalla stessa radice del verbo «respirare», «prendere fiato». Quando la persona perde il soffio vitale diventa un’anima morta.

Edmond Jacob così spiega: «La dipartita della nefesh è una metafora per la morte; un uomo morto è uno che ha cessato di respirare».[30] Tory Hoff offre un commento simile: «Con l’immagine concreta della perdita del respiro, il testo ci dice che Rachele stava per morire mentre nasceva Beniamino. Non era ancora morta nel senso moderno del termine, ma stava per entrare in coma prima di spegnersi completamente. Stava perdendo la nefesh, vitalità sostenuta dal ruah (respiro), al punto che di lì a poco, avrebbe lasciato l’esistenza (nefesh)».[31]

Si può concludere che la dipartita dell’anima sia una metafora per indicare la morte, associata alla scomparsa dell’attività respiratoria.

Ritorno dell’anima

Nel racconto dell’episodio della risurrezione del figlio della vedova di Sarepta grazie al profeta Elia, si parla del ritorno della nefesh. Il testo dice: «Si distese quindi tre volte sul bambino e invocò il SIGNORE e disse: “SIGNORE, mio Dio, ti prego, torni la vita di questo bambino in lui!”. Il SIGNORE esaudì la voce di Elia: la vita del bambino tornò in lui, ed egli visse» (1 Re 17:21,22).

A prima vista, si deve ammettere che questo testo potrebbe far credere che alla morte l’anima lasci il corpo e che possa essere richiamata dalla preghiera di Elia. Questa è la conclusione cui giungono i sostenitori dell’immortalità dell’anima. Tre importanti ragioni portano a rifiutare quest’interpretazione. La prima è che, né in questo brano, né in nessun’altra parte della Bibbia, si trova un’indicazione circa l’immortalità dell’anima umana.

La seconda è che la morte del ragazzo (v. 17) è descritta come la cessazione del respiro: «Non gli rimase più soffio di vita». Questo suggerisce che, come la cessazione del respiro causava la dipartita dell’anima nefesh, così la ripresa del respiro richiamava il ritorno dell’anima.

Edmond Jacob così scrive: «In 1 Re 17:17, la mancanza di neshamah (respiro) causa la dipartita della nefesh, che ritorna quando il profeta dà di nuovo fiato (aria) al ragazzo, poiché soltanto la nefesh fa di una creatura vivente un organismo vivente».[32] Il respiro è la manifestazione esterna dell’anima, l’arresto o la ripresa della respirazione determina la separazione o il ritorno dell’anima.

La terza è che il versetto 21, tradotto letteralmente, dice: «Fa che l’anima di questo bambino entri di nuovo nelle sue parti interne». Questa lettura permette una costruzione diversa del brano. Ciò che torna nelle sue parti interne è il respiro. L’anima, come tale, non è mai associata a qualche organo «interno» del corpo. Il ritorno del respiro nelle parti interne comporta un recupero della vita per tutto il corpo, oppure si potrebbe dire che la persona torni a essere di nuovo un’anima vivente.

Dom Wulstan Mork osserva a ragione: «Nefesh qui significa la vita del fanciullo, la vitalità che ne fa un essere vivente umano. Questo senso basilare espresso da nefesh permane attraverso tutto l’Antico Testamento in tutti i tempi e in tutti gli scritti».[33]

Alla luce delle considerazioni di cui sopra, si deve concludere che l’affermazione «l’anima del bambino entrò in lui di nuovo» significa semplicemente che il bambino riprese a vivere o che il bambino iniziò nuovamente a respirare. Questo è il senso che i traduttori danno alla frase rendendola: «La vita del ragazzo ritornò a lui». Questo è un modo perfettamente intelligibile di capire il testo ed è coerente con il resto dell’insegnamento dell’Antico Testamento.

Conclusione

Lo studio sul significato di nefesh (anima) nell’Antico Testamento ha mostrato come nemmeno una volta la parola sia usata per trasmettere l’idea di un’entità immateriale e immortale capace di esistere separatamente

dal corpo. Al contrario nefesh costituisce il principio vitale, il soffio di vita, sede delle emozioni e della personalità. Alla morte, l’anima cessa di funzionare come principio animatore della vita del corpo. Il destino dell’anima è collegato indissolubilmente con il destino del corpo perché il corpo è la manifestazione esterna dell’anima.

Nota:

Questo studio è stato tratto dal libro del dott. Samuele Bacchiocchi, Immortalità e Risurrezione, ed. Adv, Impruneta, (Fi), 2003.

[1] G. DEVOTO E G.C. OLI, Nuovo vocabolario illustrato della lingua italiana, Selezione dal Reader’s Digest, vol. 1, Milano, 1987 p. 139. Webster’s New Collegiate Dictionary, 1974, voce: «Soul».

[2] C. TRESMONTANT, A Study in Hebrew Thought, New York, 1960, p. 94. È il migliore studio per comprendere la differenza tra il pensiero ebraico e quello greco. Titolo originale Essai sur la pensée hébraïque, Paris, Cerf, 1962, p. 97.

[3] A. JOHNSON, The Vitality of the Individual in the Thought of Ancient Israel, Cardiff, Wales, 1964, p. 19.

[4] J. PEDERSEN, Israel: Its Life and Culture, London, 1926, Vol. 1, p. 99.

[5] Ibid., pp. 99,100.

[6] H.W. WOLFF, Antropologia dell’Antico Testamento, (trad. E. Buli), Brescia, Queriniana, 1975, p. 18.

[7] W. MORK, Linee di antropologia biblica, (trad. L. Bono), Fossano, ed. Esperienza, 1971, p. 48.

[8] J. PEDERSEN, Op. cit., p. 171.

[9] H.W. ROBINSON, The Christian Doctrine of Man, Edinburg, 1952, p. 27.

[10] W. MORK, Op. cit. pp. 48,49.

[11] N. SNAITH, «Justice and Immortality» in Scottish Journal of Theology 17/3, settembre 1964, pp. 312,313.

[12] B.F.C. ATKINSON, Life and Immortality, London, pp. 1,2.

[13] Idem, p. 2

[14] Cfr. B.F.C. ATKINSON, Op. cit., p. 3.

[15] H.W. WOLFF, Op. cit. , p. 10.

[16] T. HOFF, Op. cit., p. 98.

[17] Idem.

[18] Idem.

[19] H.W. WOLFF, Op. cit., p. 25.

[20] W. MORK, Op. cit., p. 54.

[21] W. MORK, Op. cit., p. 55.

[22] W.D. STACEY, The Pauline View of Man, London, 1956, p. 87, citato da Dom W. Mork

[23] W. MORK, Op. cit., p. 55.

[24] J. PEDERSEN, Op. cit., p. 179.

[25] Ibidem, p. 180.

[26] E. JACOB, «Nefesh» alla voce «Psyché», in G. KITTEL - G. FRIEDRICH, Grande Lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia, 1988, vol. XV, col. 1197.

[27] J. PEDERSEN, Op. cit., p. 171.

[28] R.A. MOREY, Death and the Afterlife, Minneapolis, 1984, p. 49.

[29] H.W. WOLFF, Op. cit. , p. 20.

[30] E. JACOB, Art. cit., col. 1191.

[31] T. HOFF, Op. cit. , p. 101.

[32] E. JACOB, Art. cit., col. 1191.

[33] W. MORK, Op. cit., p. 49.