L’equivalenza biblica giorno-anno nel nostro tempo non è condivisa da diversi teologi, non perché il testo non sia evidente, ma principalmente per due motivi con i quali si considera la profezia.
- Primo, essa è generalmente vista come un annuncio post-eventum e quindi quanto annuncia è già stato realizzato nel passato, anche prima di quando il profeta pretende di profetizzare.
- Secondo, essa è qualcosa che riguarda il lontano futuro, dove tutto sarà possibile. Tra il passato, il tempo dei profeti e il nostro presente non ci sono profezie da realizzare e quindi l’idea di annunci, di avvenimenti che si compiono nella storia non c’è.
Purtroppo, i teologi futuristi cattolici e protestanti liberali, avendo l'handicap della Chiesa cattolica,1 rimandano il tutto a un tempo indeterminato, oppure considerano le profezie in termini mitologici, rifugiandosi ingegnosamente nel futuro. Praticamente, secondo loro, “nessuna profezia dell’Apocalisse si è realizzata fino a questo momento”.2
Il sistema pecca di esclusivismo e lascia un vuoto profetico di 15 secoli, in rapporto a una interpretazione del "già successo" di alcuni teologi,3 in modo particolare tenendo in considerazione le profezie dell’Apocalisse. iAllora non si capisce come mai l’apostolo Giovanni abbia saltato quindici secoli nel descrivere le scene finali della storia, riferite al ritorno di Cristo.
Pertanto, pare saggio accreditare il sistema storico futuristico o storia continua. Quest’ultimo metodo interpretativo è quello che più s’addice al linguaggio profetico apocalittico.
L’abate M. J. Michel afferma "che l’Apocalisse sia la rivelazione profetica della storia del cristianesimo non può essere l’oggetto di un dubbio; è il sentimento dei Padri, e il testo sacro, del resto, lo stabilisce".4
Giorni e/o anni
Sin dai primi secoli della nostra era e prima della venuta di Cristo, i saggi giudei avevano già adottato il principio giorno-anno. Più d’una ventina di commentatori giudei celebri, fra i quali il rabbino palestinese Akiba ben Joseph (†nel 135 d.C.), Isac Abarbanel (†942), Salomone Ben Isac, detto Raschi (†1105) hanno dato ai giorni di Daniele il valore di anno. Questa è anche l’opinione del celebre Saadia Gaon (†942), che ammetteva che la parola "giorno" impiegata nel dodicesimo capitolo di Daniele, significa "anno". Anche Mosè ben Nahnian Nahmanide (†1268) scrive che "il termine giorno deve essere compreso come significante anno".5
Scrive Elliott, "dai tempi di Cipriano, verso la metà del III secolo, fino ai tempi di Gioacchino e dei Valdesi, al XIII secolo, il principio d’interpretazione secondo il quale un giorno ha il valore di un anno è stato riconosciuto nella Chiesa da un’insieme di commentatori. L’applicazione ne è stata fatta non senza riflessione e con prove a sostegno, sia dall’uno che dall’altro dei periodi di giorni profetici, compreso il più corto di quelli che si riporta all’Anticristo".6
Il prof. William H. Shea ha evidenziato significativi parallelismi fra i termini “giorni” e “anni” nella narrativa storica, nella poesia e nella legislazione levitica dell’Antico Testamento.7 W. H. Shea sottolinea che nei racconti storici i “giorni” sono equiparati ad “anni” secondo tre distinte modalità.
1. L’equivalenza giorni-anni si nota in riferimenti a eventi che ricorrevano una volta l’anno. La solennità pasquale, per esempio, doveva essere celebrata “di anno in anno” (Esodo 13:10), letteralmente “di giorni in giorni”, ebraico יָמִימָה יָמִימָה miyyamîm yamîmah. “Sacrificio dei giorni”, hayyamîm, era detto un sacrificio che si offriva annualmente (1 Sm 20:6). Ogni anno, letteralmente “di giorni in giorni” (miyyamîm yamîmah).8
Elkana saliva a Shiloh con la famiglia ogni anno per offrire il sacrificio annuo (1 Sm 1:21), letteralmente “sacrificio dei giorni” (zevach hayyamîm) (cfr. 1Sm 2:19). In Giudici 11:40 si evidenzia che le fanciulle d’Israele celebravano il sacrificio della figlia di Jefte “tutti gli anni”, letteralmente “di giorni in giorni” (miyyamîm yamîmah). Questo passo è particolarmente importante in rapporto all’equazione giorno = anno, poiché alla fine del versetto ricorre l’espressione “quattro giorni l’anno” ('arba' yamîm bashanah) nella quale yamîm ha il significato letterale di “giorni” e shânâh quello letterale di “anno”.
2. A volte nell’Antico Testamento yamîm, “giorni”, designa un periodo di tempo corrispondente a un anno.
In 1 Samuele 27:7, per esempio, si dice letteralmente che Davide e i suoi uomini dimorarono nel paese dei Filistei “giorni e quattro mesi” (yamîm we’arba‘ah chadashîm). La frase significa “un anno e quattro mesi”. In Numeri 9:22, si parla del soggiorno d’Israele nel deserto e del fatto che gli israeliti restavano accampati e non partivano finché la nuvola non si alzava, fosse “per due giorni o un mese o un anno” (hû yimaîm hû chodesh yamîm). La progressione naturale delle unità di tempo non può essere che “giorni, mese e anno”; è evidente che la seconda volta che ricorre la parola “giorni” (al plurale come di regola), essa ha il significato di “anno”, come correttamente la rendono le versioni della Bibbia in italiano.
3. Non di rado nell’Antico Testamento “giorni” equivale ad “anni” in passi nei quali si indica la durata della vita di una persona.
Per esempio, 1 Re 1:1 evidenzia che il re Davide “era vecchio nei giorni” (zaqen ba bayamîm), volendo significare che questo personaggio era avanti negli anni. Nella Genesi l’uso di “giorni” per “anni” appare ancora meglio definito. Giacobbe, per esempio, dice al faraone: “I giorni degli anni dei miei pellegrinaggi sono stati pochi e cattivi e non hanno raggiunto i giorni degli anni dei miei padri...” (Gn 47:9). Tre volte si ripete l’espressione yeme shnê, “ i giorni degli anni”. Questa forma di linguaggio sembra improntata alle genealogie dei patriarchi antidiluviani riportate in Genesi 5.
In queste genealogie, per ben 10 volte si ripete l’espressione: “... visse tanti anni e generò..., dopo che ebbe generato..., visse tanti anni. E tutti i giorni di... furono tanti anni, poi morì” (ebraico: qol yemê... shânâh...).
Un nesso significativo fra “giorni” e “anni”, da una parte, e una predizione profetica, dall’altra, che si coglie nella terza frase della genealogia di Genesi 5, si ritrova nel capitolo successivo dove Dio, riferendosi alla malvagità degli antidiluviani, dice: “Lo Spirito mio non contenderà per sempre con l’uomo; perché nel suo traviamento egli non è che carne; e i suoi giorni dureranno quindi centoventi anni” (Gn 6:3). Questa è la prima crono-profezia della Bibbia in cui “giorni” e “anni” sono messi in parallelo.
“Da questa breve rassegna", osserva Shea, "si può vedere come dal nesso che venne stabilendosi fra le parole ‘giorno’ e ‘anno’ si sviluppasse un uso linguistico e un modello mentale dai quali in seguito si trassero specifici rapporti quantitativi da applicare in contesti profetici”. E conclude: “È evidente che il principio anno-giorno nella profezia sui generis non apparve repentinamente, ma vi fu introdotto derivandolo da un modello che già faceva parte del pensiero ebraico”.9
"Come la narrativa storica in prosa", scrive ancora il prof. Shea, "la letteratura poetica dell’Antico Testamento, se non offre un criterio metodologico da applicare nell’interpretazione dei periodi profetici, fornisce comunque degli esempi di associazione al fianco di due unità di tempo, la cui stretta relazione reciproca è messa in luce dall’uso del parallelismo poetico".
Ecco alcuni esempi: “I tuoi giorni son essi come i giorni del mortale, i tuoi anni son essi come gli anni degli umani...?” (Gb 10:5). “L’empio è tormentato tutti i suoi giorni, e pochi son gli anni riservati al prepotente” (Gb 15:20). “Se l’ascoltano, se si sottomettono, finiscono i loro giorni nel benessere, e i loro anni nella gloria” (Gb 36:11).
Altri esempi si possono trarre dal Deuteronomio: “Ricordati dei giorni antichi, considera gli anni delle età passate, interroga tuo padre ed egli te lo farà conoscere, i tuoi vecchi ed essi te lo diranno” (Dt 32:7).
Un paio di esempi si possono cogliere nel libro dei Salmi: “Ripenso ai giorni antichi, agli anni da lungo tempo trascorsi” (Sl 77:5). “Tutti i nostri giorni spariscono per la tua ira, finiamo i nostri anni come un soffio. I giorni dei nostri anni arrivano a settant’anni; o, per i più forti, a ottant’anni; e quel che ne fa l’orgoglio non è che travaglio e vanità; perché passa presto, e noi ce ne voliam via” (Sl 90:9,10).
“Questa lista di passi biblici nient’affatto esaustiva", precisa l’autore, "è proposta a puro titolo esemplificativo. ‘Giorni’ e ‘anni’ nei parallelismi dei testi citati non indicano periodi di tempo brevi e lunghi, ma periodi di tempo di uguale lunghezza, calibrati però entro unità di tempo più brevi e più lunghe. L’identico processo mentale si rispecchia nelle crono-profezie, con la differenza che in queste ultime l’equivalenza è specificata numericamente”.
Due paragrafi più sotto conclude: “Il nesso stretto e particolare fra ‘giorni’ e ‘anni’ che si scorge nella prosa e nella poesia dell’Antico Testamento, fornisce una base per applicare in modo specifico alle crono-profezie apocalittiche questo modello di pensiero”.10
La legislazione levitica nell’ambito della più ampia legislazione mosaica - facciamo sempre riferimento all’argomentazione del prof. Shea - contemplava fra altre un’istituzione attinente all’economia agricola dell’antico Israele, la quale prendeva il nome di anno sabatico (cfr. Lv 25:1-7).
Per sei anni, in forza di questa istituzione, il contadino israelita doveva seminare il suo campo, potare la sua vigna, raccoglierne i frutti, ma il settimo anno doveva astenersene. I prodotti spontanei del campo e della vigna erano di tutti: dello straniero, del povero, dello schiavo e del proprietario stesso del campo e della vigna. L’anno sabatico cadeva alla fine di ogni settennio. La legge relativa a questa istituzione esordiva con queste parole: “Quando sarete entrati nel paese che io vi do, la terra dovrà avere il suo tempo di riposo consacrato al Signore” (Lv 25: 2), letteralmente “sabatizzerà la terra un sabato per Jahvé” (weshavthâh ha’arez shabbath leyehowa).
Il “sabato” menzionato qui, ovviamente, non è il sabato settimanale, è l’ultimo anno di un settennio. Nel v. 4, la prescrizione è ripetuta in una forma lievemente diversa: “il settimo anno sarà un sabato... per la terra, un sabato in onore del Signore” (shabbath shabbathôn). Ripetuta ancora nel v. 5, la disposizione levitica ha la parola “anno” nell’identica posizione in cui nel v. 4 c’è la parola “sabato”: “sarà un sabato, un completo riposo per la terra” (v. 4). Il settimo anno “sarà un anno di completo riposo per la terra” (v. 5). In questo parallelismo si coglie con naturalezza una identità tra sabato dedicato alla terra e anno dedicato alla terra.
“In Levitico 25:1-7", osserva Shea, "è chiaramente implicito che l’anno sabatico è modellato sul giorno sabatico, vale a dire sul sabato settimanale".
Come i sei giorni di lavoro erano seguiti dal settimo giorno di riposo sabatico, così i sei anni di lavori agricoli dovevano essere seguiti da un settimo anno di riposo per la terra. Il settimo giorno doveva essere un sabato di “solenne riposo” (Lv 23:3); similmente il settimo anno, l’anno sabatico, doveva essere un sabato di “solenne riposo” per la terra (Lv 24: 4,5).
“Esiste dunque un rapporto diretto fra il ‘giorno’ e l’‘anno’ dal momento che l’identica terminologia è applicata all’uno e all’altro; il posteriore anno sabatico fu modellato sull’anteriore giorno sabatico. Tale rapporto appare quantitativamente più chiaro quando si considera la parte successiva della legislazione contenuta in Lv 25, ovvero quella relativa al giubileo”.11
"Anche se Levitico 25:8 è un testo legislativo", osserva Shea, "il principio giorno-anno funziona alla stessa maniera che nel libro di Daniele, ovvero i ‘giorni’ proiettati nel futuro segnano gli anni del futuro. Il passo riguarda la celebrazione dell’anno giubilare e recita letteralmente: 'Conterai per te sette sabati d’anni (wesafartha leka sheva‘ shabthoth shanîm), sette anni sette volte (sheva‘ shanîm sheva‘ pe‘amîm) e saranno per te i giorni dei sette sabati d’anni quarantanove anni (wehayû leka yemê sheva‘ shabthoth hashshanîm thesha‘ we’arba‘im shana)".
La spiegazione dell’espressione numerica della prima frase del passo (“sette sabati d’anni”) che viene data nella seconda frase (“sette volte sette anni”), mostra che un "sabato d’anni" deve comprendersi come un periodo di sette anni. Il sabato, settimo giorno della settimana, è equiparato a un settimo anno; l’ultimo giorno della settimana, insomma, sta per l’ultimo anno di un settennio, cosicché ciascun giorno di ogni settimana, terminante con il sabato, equivale a un anno del ciclo giubilare.
“Che la terminologia ‘sabatica’", scrive testualmente il nostro autore, "fosse inoltre utilizzata per designare la ‘settimana’, risulta evidente dalla fraseologia parallela usata due capitoli più avanti. Quivi si fa riferimento alla festa delle settimane, o di Pentecoste, che si celebrava in capo a sette ‘settimane intere’, letteralmente ‘sette sabati interi’ (shabbathôth tmîmoth, Lv 23:15). Poiché bisognava contare più che dei giorni di ‘sabato’ completi per arrivare al cinquantesimo giorno fissato per la celebrazione della Pentecoste, è evidente che ‘sabati’ qui significa ‘settimane’, come giustamente traducono il termine le versioni. Questa fraseologia parallela attinente alla Pentecoste mostra che i ‘sabati’ ai quali si fa riferimento in Lv 25:8 in relazione al giubileo, debbono anche significare ‘settimane’. In definitiva il giorno del Sabato e i sei giorni che lo precedono vennero utilizzati come modello per fissare, secondo le direttive divine, la ricorrenza dell’anno giubilare”.12
Con ragione Shea sostiene che, nell’ambito della profezia, questa utilizzazione del principio anno-giorno ha il suo corrispettivo in Daniele 9:24-27, sebbene qui ricorra un termine un po’ diverso, shavu‘a, il quale tuttavia significa la stessa cosa che “sabati” in Levitico 25:8, cioè “settimane”.
Che il principio anno-giorno sia applicabile ai periodi temporali di Daniele 9:24-27, risulta dunque particolarmente evidente dalla costruzione parallela che si trova nella legislazione levitica relativa all’anno giubilare.
“Si potrebbe quasi dire che il periodo temporale contemplato in Daniele 9:24-27 sia modellato sulla legislazione giubilare”.13
In breve, se è legittimo applicare il principio anno-giorno ai giorni della settimana di cui si parla in Levitico 25, per calcolare il tempo futuro che deve trascorrere fino al prossimo giubileo, lo è anche in rapporto ai giorni delle settimane di Daniele 9, per calcolare il tempo futuro, facendolo decorrere dall’inizio di quelle “settimane”; e per estensione lo stesso principio potrà ragionevolmente applicarsi ai “giorni” delle altre crono-profezie danieliche.14
Il prof. Shea cita Numenri 14:34 come terzo caso in cui, nella Bibbia, il principio giorno-anno è applicato in modo alquanto differente da come lo è in Levitico 25.
In Numeri 14 i “giorni” come unità di misura per calcolare gli “anni” sono presi da eventi del passato storico immediato, precisamente dai 40 giorni che 12 uomini mandati da Giosuè impiegarono per esplorare il paese di Canaan. Poiché il popolo accampato nel deserto credette al rapporto negativo presentato dalla maggior parte degli esploratori, Dio sentenziò che esso sarebbe rimasto nel deserto per 40 anni: “Come avete messo quaranta giorni a esplorare il paese, porterete la pena delle vostre iniquità quarant’anni; un anno per ogni giorno (yôm lashshanath yôm lashshanath); e saprete che cosa sia cadere in disgrazia presso di me” (Nm 14:34).
Il destino di quella generazione ribelle - errare nel deserto - “è predetto in forma di giudizio profetico calibrato sul principio anno-giorno”. "È evidente", arguisce il nostro autore, "che interpretando un giorno come equivalente a un anno nelle profezie apocalittiche, il principio anno-giorno viene applicato in ordine inverso rispetto a come lo è in Numeri 14:34. In questo passo un giorno passato equivale a un anno futuro; nelle profezie apocalittiche un giorno futuro sta per un anno futuro.
Questo non significa che il principio anno-giorno in ciascuno dei due casi abbia un’origine indipendente, significa soltanto che esso è stato adattato e trasformato per l’uso che se ne fece nel più tardivo genere di tempo profetico apocalittico. I due tipi di tempo profetico possono ancora essere considerati come essendo in rapporto l’uno con l’altro... Non è detto che l’apocalittica debba usare i giorni profetici della profezia classica alla stessa maniera di quest’ultima, e tuttavia l’utilizzo posteriore di siffatti elementi temporali è tratto dal modello-base fornito dalla profezia classica”.15
La considerazione fatta sopra vale anche per quanto attiene alla divergenza fra il modus operandi del principio giorno-anno nel Levitico e l’applicazione di esso nel libro dei Numeri.
Vale altresì nel caso di Ezechiele 4:6 - del quale si tratterà più avanti - ove lo stesso principio è applicato con una modalità ancora differente rispetto a Numeri 14 e Lv 25.
L’uso del principio nel libro di Daniele - posteriore rispetto a quello di Ezechiele - si rifà al modello più antico, quello di Levitico 25. In sostanza si può parlare di un uso continuo del principio.
“Come l’uso linguistico di ‘giorni’ accoppiati ad ‘anni’ in passi in prosa e in poesia nell’Antico Testamento forma il background dal quale si sviluppa il principio, così i testi nei quali il principio anno-giorno è utilizzato in maniera differente forniscono una base per l’applicazione specifica che se ne fa nell’apocalittica”, afferma Shea.16
W. H. Shea prende ancora in esame il passo di Ezechiele 4:6 dove si descrive un’azione simbolica con tre elementi principali:
(1) il significato dell’azione mimata;
(2) l’elemento crono-profetico che vi è implicato e
(3) il background storico attinente all’elemento temporale.
"Dal contesto", osserva l’autore, "risulta evidente che lo scopo della parabola mimata era quello di predire l’assedio e la conquista di Gerusalemme per opera dei Babilonesi e la susseguente deportazione dei suoi abitanti. I 430 anni (390 + 40), che costituiscono la motivazione per la quale il profeta dovrà giacere prima su un fianco poi sull’altro, rappresentano il progressivo degrado morale e spirituale della società israelitica durante il tempo della monarchia divisa. I giorni durante i quali il profeta doveva 'portare' i peccati del popolo corrispondono al tempo che Dio impiegò per giudicare il suo popolo nel tempio, come si vede da Ezechiele 1, 9 e 10 . Gli elementi temporali di questa profezia giustificano il confronto con gli elementi temporali di Numeri 14:34". Da un siffatto confronto emergono significative analogie che si apprezzano meglio attraverso un raffronto delle traduzioni letterali dei due passi:
Numeri 14:34: “Secondo il numero dei giorni (bemispar hayyamîm) nei quali avete spiato il paese, quaranta giorni (’arba‘îm yôm), giorno per anno, giorno per anno (yôm lashshanah yôm lashshanah) porterete la vostra iniquità (this’û ‘awônothêkem) quarant’anni (’arba‘îm shanah)”.
Ezechiele 4:4-6: “... per il numero di giorni (mispar hayyamîm) che starai sdraiato su quel lato, tu porterai la loro iniquità (thissa’ ’eth ‘awonam). E io ti conterò gli anni della loro iniquità (shne ‘awônam) in numero pari a quello dei giorni (lemî spar yamîm): trecentonovanta giorni. Tu porterai così l’iniquità della casa d’Israele... e porterai l’iniquità della casa di Giuda per quaranta giorni (’arba‘îm yôm), un giorno per un anno, un giorno per un anno (yôm lashshanah yôm lashshanah) che io t’impongo”.
Nella lingua originale, l’uno e l’altro testo presentano aspetti linguistici paralleli. In entrambi i passi l’atto di “portare” e l’“iniquità” portata sono espressi alla stessa maniera; tutti e due sono introdotti con la stessa frase, “il numero dei giorni”, e tutti e due esprimono lo stesso concetto con l’identica frase replicata: “giorno per anno, giorno per anno”.
"Da questo raffronto", osserva il prof. Shea, si vede che il secondo dei due passi (Ez 4) dipende direttamente dal primo (Nm 14) per vari aspetti significativi: il principio anno-giorno applicato in Ezechiele 4:6 è dunque, linguisticamente, lo stesso principio operante in Numeri 14:34".
Tuttavia si nota una differenza nella modalità di applicazione del principio. I “giorni” futuri in senso profetico in Ezechiele sono fatti derivare da un eguale numero di “anni” storici passati, inversamente di quel che avviene in Numeri 14, dove gli “anni” di giudizio fanno seguito a un egual numero di “giorni” di trasgressione (i 40 giorni ai quali si riferiscono i giudizi negativi degli esploratori).
In Numeri, insomma, il principio è applicato secondo l’ordine di un giorno per un anno, e in Ezechiele secondo il criterio inverso, un anno per un giorno. Ma il principio operante nei due casi è lo stesso, come si vede dai raffronti linguistici. “Ezechiele", osserva Shea, "non è che dica ‘anno per il giorno’ e Numeri ‘giorno per l’anno’. La fraseologia (‘un giorno per un anno un giorno per un anno’) compare nei due passi nell’identica forma. Non c’è alcuna differenza fra di essi, sebbene differisca nei due casi l’applicazione storico-cronologica. Ciò significa che lo stesso principio poteva applicarsi con modalità diversificate in situazioni differenti”.17
Note conclusive
Agl’inizi del IX secolo, il dotto giudeo Nahawendi eguagliò ad altrettanti anni i 1.290 e i 2.300 giorni delle profezie di Daniele. Nel secolo X, utilizzarono lo stesso principio per interpretare le 70 settimane e uno o più di uno dei periodi di 1.290, 1.335 e 2.300 giorni del libro di Daniele, i dotti giudei Saadia ben-Josef, Jeroham, Hakohen, Iefet ibn-Alì e Rashi. Nei secoli XI e XII, applicarono questo criterio esegetico ai più lunghi periodi profetici di Daniele i rabbi Hanasi e Eliezer; e nel secolo XIII, lo studioso giudeo Nahmanides.18
Fra i cristiani, l’abate calabrese Gioacchino da Fiore (circa 1130 -1202) fu il primo espositore delle profezie apocalittiche a utilizzare il principio giorno-anno per interpretare i lunghi periodi profetici di Daniele (i 1.260, i 1.335 e i 2.300 giorni). Lo seguirono il teologo, laico e spagnolo, Arnoldo da Villanova (circa 1235 - circa 1313), il francescano della Linguadoca, Pierre Jean d’Olivi (1248-1298), e l’italiano Ubertino da Casale, nato nel 1259.19
L’escatologo Alfred-Felix Vaucher, nel suo saggio Les prophécies apocalyptiques et leur interpretation,20 cita lo studioso William Bell Dawson (nato nel 1854) il quale ha scritto: “Che un giorno nella profezia corrisponda ad un anno lo hanno riconosciuto i principali esegeti dalla Riforma in poi”.21
A. F. Vaucher evidenzia anche che “non basterebbero parecchie pagine per menzionare tutti gli autori protestanti che si sono occupati dei 2.300 giorni compresi come altrettanti anni” e ne nomina alcuni fra i più noti: il fisico inglese Isaac Newton (1643-1727), l’astronomo valdese Jean Philippe Loys de Cheseaux (1718-1751), il vescovo anglicano Thomas Newton (1704-1782), il cronologo William Hales (1747-1831), l’espositore Edward Bishop Elliott (1793-1853).22
Fra gli autori cattolici che hanno interpretato i 2.300 giorni di Daniele 8:14 in termini di anni, Vaucher ricorda il canonico Claude Lesquevin (seconda metà del XVIII secolo), l’ebraicista Francois Houbigant (1686-1783), il canonico giansenista Pierre Jourdan, morto nel 1746, il giurista messicano José Maria Rosas-Gutierrez (1769-1848), Pierre Lacheze (1840), William Palmer (1811-1879), Salvatore Di Pietro (1830-1898) e altri.23
E. B. Elliott scrive: “al tempo di Cipriano, verso la metà del III secolo, fino al tempo di Gioachino e dei Valdesi, nel XIII secolo, il principio d’interpretazione secondo il quale un giorno ha valore di un anno è stato riconosciuto nella Chiesa da un susseguirsi di commentatori“.24
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Tratto dal libro di Antonio Caracciolo, Capire Daniele, ed. ADV, Impruneta (FI), 2004, pp. 239 – 244. Adattato dal past. Francesco Zenzale.
1 Sono numerosi i teologi del passato e del presente che vedono nel piccolo corno di Daniele 7, nella bestia che sale dal mare (Ap. 13) e al capitolo 17, la chiesa cattolica.
2 Dictionnarie de la Bible, Vigouroux, t. 1, col. 752.
3 Per esempio: in Daniele 2, nella "statua dei quattro metalli e la pietra che diventa grande quanto la terra", questi sono obbligati, da Daniele stesso, a vedere, nei rispettivi simboli: Babilonia, Medo Persia, Grecia, Roma, la divisione dell’impero Romano e il Ritorno di Cristo simboleggiato dalla pietra. Tutti i teologi sono d’accordo: Crampon, Pache, Darby, Fabre d’envieu, J. P. Brisset, Lutero, Calvino, Melantone, Vitrinca, Geiger, Bengel, Bullinger, Gaussen, Auberlen, Starke, Keil, Isaac Newton, ecc. Ma quando considerano la profezia parallela di Daniele 7, la quale ci offre dei particolari sull’impero romano e il suo divenire nel piccolo corno, che non cogliamo in Daniele 2 se non nell’aspetto argilloso di un potere non ancora identificabile, i teologi, per non voler vedere nel piccolo corno il papato, applicano l’interpretazione preteristica (già successo) o seguono strane e incongruenti spiegazioni: leone = Babilonia; orso = Medo Persia; leopardo o pantera = Grecia con i successivi quattro diadochi; mostro non identificabile = il regno dei seleucidi di Siria, di cui le 10 corna sono dieci re; il piccolo corno = Antioco IV Epifane (175 - 173 a.C.), il persecutore dei giudei.
Questa interpretazione contrasta con la profezia stessa per diversi motivi:
- Le profezie contenute nel libro di Daniele riguardano il tempo della fine (Dan. 2: 28; 8: 17; 12: 4, 9).
- Il potere simboleggiato dal piccolo corno di Daniele 7, esisterà sulla faccia della terra fino al ritorno di Cristo o all’evento del regno di Dio (Dan. 7: 26-28).
- Questo potere sarà "tolto di mezzo" con il giudizio, quindi è realtà presente e non solo passata (Dan. 7: 9-14, 26)
- Avrebbe cambiato la legge e i tempi, cosa che non fece Antioco IV Epifane, il quale profanò semplicemente il santuario israelita (Dan. 7: 25).
- È un potere politico-religioso (Dan. 7: 24-25).
4 M. J. Michel, Histoire du bien et du mal depuis Jesus Christ jusqu’à la fin des temps d’apres la Révelation de s. Jean, Lyon 1867, pag. 4, citato da A. Pellegrini, pag. 727. Cosi anche il francescano Pierre d’Auriole, Edouard Reuss, S. Agostino, Gioacchino da Fiore, Bernardino Negroni, L’abbate Drach, L’abbate Bausset, Amédée Nicolas, Remi Pothier, S. Girolamo.
5 Beniamin, Le messianisme Juif, Paris 1969, pp. 287, 293.
6 E. Edward-Bishop, Horae Apocalypticae, t. III, 5a ed., London 1862, p. 283.
7 W. H. Shea, in Selected Studies on Prophetic Interpretation, Washington DC, 1981, alle pp. 66-88.
8 cfr. 1 Sm 2:19, Anna portava una tunica nuova al piccolo Samuele.
9 op. cit. p. 67.
10 op. cit., p. 69.
12 op. cit., p. 71.
14 Il Talmud precisa: "Una settimana in Daniele 9 significa una settimana d’anni" (Yoma 54a). Questo modello d’interpretazione lo troviamo negli scritti degli Esseni (manoscritti del mar Morto). Le 70 settimane sono convertite in 490 anni, periodo che si conclude con la venuta del "Maestro di giustizia". "Ma ricordandosi del patto fatto con i Patriarchi, Egli (Dio) lascerà un resto in Israele... e ai tempi della collera, 490 anni dopo che erano stati dati nelle mani di Nebucadnetsar, re di Babilonia, egli li visiterà e susciterà loro un maestro di giustizia, per condurli nella via cara al suo cuore e per fare conoscere alla generazione, quel che farà nell’ultima generazione". (Scritto di Damasco, "l’esortazione". Manoscritto A, 1:4-11; cfr. A. Dupont Sommer, Les Ecrits Esséniens découvert prés de la mer Morte, p. 137).
15 op. cit., pp. 72-73.
16 op. cit., p.73.
17 op. cit., p. 74.
18 Vedi L. E. Froom, The Prophetic Faith of Our Fathers, Washington DC 1946,1950, vol. I, p. 713. Vedi anche A. F. Vaucher, Lacunziana I, 1949, pp. 54-56.
19 Vedi L. E. Froom, op. cit., pp. 750-751; 772-773; 780.
20 Collonges-sous-Salève 1972, p. 9.
21 “Solar and Lunar Cycles implied in the prophetical Numbers in the Book of Daniel” in Transactions of the Royal Soc. of Canada, 2d Series, XI, III, Ottawa 1905, p.51
22 A. F. Vaucher, Les prophécies apocalyptiques et leur interpretation, p. 10.
23 ibidem, p. 11.
24 A. F. Vaucher, op. cit., pp. 45,46.