04. Lo stato dei morti nel Nuovo Testamento

04. Lo stato dei morti nel Nuovo Testamento

Il Nuovo Testamento dice molto poco circa lo stato dei morti durante il periodo intermedio. Dobbiamo accettare ciò che dice G. C. Berkouwer quando afferma che quello che il Nuovo Testamento dice circa lo stato intermedio non è più di un sussurro.[1]

L’interesse primario del Nuovo Testamento è negli eventi che segnano la transizione da quest’era all’era futura: il ritorno di Cristo e la risurrezione dei morti. La nostra maggiore fonte di informazione in merito allo stato dei morti sono i riferimenti all’ades (l’equivalente greco dell’ebraico sheol) e cinque passi generalmente citati a sostegno di un’esistenza cosciente dell’anima dopo la morte. I cinque brani riguardano: la parabola del ricco e Lazzaro (Lc 16:19-31), la conversazione tra Cristo e il ladrone in croce (Lc 23:42,43), l’espressione paolina di «partire ed essere con Cristo» (Fil 1:23), la similitudine della casa terrena e celeste e del vestire o essere svestito (2 Cor 5:1,10) dove Paolo esprime il suo desiderio di «partire dal corpo e abitare con il Signore» (2 Cor 5:8) e le anime dei martiri che gridano a Dio perché vendichi il loro sangue (Ap 6:9,11).

Il significato e la natura di ades

La parola greca ades è stata introdotta dai traduttori della Septuaginta nel tradurre l’ebraico sheol. Il problema è che ades era un termine utilizzato nel mondo greco in modo molto diverso da sheol. Mentre lo sheol nell’Antico Testamento è il regno dei morti, dove, come si è visto, i defunti sono in uno stato d’incoscienza, l’ades nella mitologia greca è il mondo sotterraneo, dove le anime dei defunti sono divise in due gruppi: quelle dei dannati e quelle dei beati.

Edward William Fudge offre questa descrizione della concezione greca dell’ades: «Nella mitologia greca Ades era il dio del mondo sotterraneo e allo stesso tempo il nome del mondo inferiore. Caronte traghettava le anime dei morti attraverso il fiume Stige o Acheronte nella sua dimora, dove il cane da guardia, Cerbero, custodiva il cancello affinché nessuno potesse scappare. Il mito pagano conteneva tutti gli elementi dell’escatologia medievale: c’erano da un lato i piacevoli Campi Elisi, dall’altro il miserabile e oscuro Tartaro, e persino le praterie degli Asfodeli, dove i fantasmi potevano vagare poiché non erano adatti per nessuno dei due luoghi indicati. Accanto al dio che governava, c’era la regina Proserpina (o Persefone), da lui rapita dal mondo di sopra».[2]

Questa concezione greca dell’ades ha influenzato i giudei ellenisti, durante il periodo intertestamentario, i quali adottarono l’immortalità dell’anima e l’idea d’una separazione spaziale nel mondo sotterraneo tra i giusti e gli empi. Le anime dei giusti alla morte ascendevano immediatamente verso la felicità celeste, in attesa della risurrezione, mentre le anime degli empi scendevano nel luogo del tormento, cioè l’ades.[3] L’accettazione popolare di questo scenario è riflesso nella parabola del ricco e Lazzaro. Il concetto di ades come luogo di tormento per gli empi è entrato via via nella chiesa cristiana e ha influenzato perfino i traduttori della Bibbia. È notevole che la parola ades, che si trova 11 volte nel Nuovo Testamento venga tradotta nella King James Version dieci volte come «l’inferno»[4] e una volta come «tomba».[5]

La Revised Standard Version trascrive semplicemente la parola con ades. La traduzione di ades come «inferno» è inesatta e mistificante, perché, a eccezione di Luca 16:23, il termine si riferisce alla tomba o al regno dei morti e non a un luogo di punizione. Quest’ultimo è designato come gheenna, termine che è anche tradotto «inferno» 11 volte nel Nuovo Testamento,[6] dal momento che si riferisce allo stagno di fuoco, il luogo della condanna per i perduti. L’ades, d’altra parte, è usato nel Nuovo Testamento come equivalente di sheol, il regno dei morti o la tomba.

Gesù e l’ades

Nei vangeli, Gesù fa riferimento per ben tre volte all’ades. La prima si trova in Matteo 11:23, dove Gesù lancia un rimprovero contro Capernaum: «E tu, Capernaum, sarai innalzata fino al cielo? Sarai abbassata fino all’ades» (cfr. Lc 10:15). Qui l’ades, come lo sheol nell’Antico Testamento (cfr. Am 9:2,3; Gb 11:7,9), indica il posto più basso dell’universo esattamente come il cielo è il posto più elevato. Questo significa che Capernaum sarà umiliata fino al regno dei morti, il posto più basso.

La seconda occasione in cui Gesù utilizza il termine ades si trova nella parabola del ricco e di Lazzaro (Lc 16:23). Si ritornerà successivamente su questo episodio. La terza volta si trova in Matteo 16:18, dove Gesù esprime la propria fiducia affermando che «le porte dell’ades non potranno vincere» la chiesa. Il significato della frase «Le porte dell’ades» è illuminato dalla stessa espressione nell’Antico Testamento e nella letteratura giudaica (cfr. 3 Maccabei 5:51; Sapienza di Salomone 16:13) dove è utilizzato quale sinonimo per la morte. Per esempio, Giobbe pone una domanda retorica: «Ti sono state mostrate le porte della morte, o hai forse visto le porte delle tenebre profonde?» (Gb 38:17; cfr. Is 38:18). Il mondo sotterraneo era ritratto come circondato da scogliere, dove i morti erano rinchiusi. Quindi Gesù voleva dire con «le porte dell’ades» che la morte non avrebbe vinto la chiesa, perché lui, ovviamente, avrebbe ottenuto la vittoria sulla morte.

Come tutti i morti, Gesù è andato nell’ades, cioè, nella tomba, ma a differenza degli altri, egli è stato vittorioso sulla morte. «Poiché tu non lascerai l’anima mia nell’ades, e non permetterai che il tuo Santo veda la corruzione» (At 2:27; cfr. 2:31). Qui l’ades è la tomba dove il corpo di Cristo ha riposato per soli tre giorni e, di conseguenza, non ha visto «la corruzione», il processo di decomposizione che avviene a seguito di un seppellimento prolungato. A motivo della sua vittoria sulla morte, l’ades, la tomba, è un nemico sconfitto. Quindi, Paolo esclama: «O morte, dov’è il tuo dardo? O tomba (ades), dov’è la tua vittoria?» (1 Cor 15:55).

Qui l’ades è tradotto correttamente «tomba» nella KJV dal momento che è parallelo con la morte. Cristo ora tiene le chiavi della «morte e dell’ades» (Ap 1:18), Egli ha potestà sulla morte e la tomba. Questo lo rende capace di aprire le tombe e chiamare i santi a vita eterna alla sua venuta. In tutti questi passi, l’ades è conformemente associata con la morte, perché essa è il luogo di riposo dei morti, la tomba. Lo stesso è vero in Apocalisse 6:8, dove il cavallo giallastro ha un cavaliere il cui nome è «morte e dietro a essa veniva l’ades». Il motivo per cui «l’ades» segue «la morte» è ovviamente da ricercarsi nel fatto che l’ades riceve i morti.

Nell’Apocalisse, alla fine del millennio, «la morte e l’ades» restituiranno i loro morti (Ap 20:13) e «poi la morte e l’ades saranno gettate nello stagno di fuoco. Questa è la morte seconda, lo stagno di fuoco» (Ap 20:14). Questi sono due versetti significativi. Primo perché dicono che l’ades restituirà i suoi abitanti, indicando così di nuovo che l’ades è il regno dei morti. Secondo, informano che alla fine, l’ades stesso sarà gettato nello stagno di fuoco. Attraverso queste immagini, la Bibbia ci rassicura che alla fine, entrambe, la morte e la tomba, saranno eliminate. Questa sarà la morte della morte o, come dice l’Apocalisse, «la morte seconda». Questa breve indagine sul termine ades nel Nuovo Testamento mostra chiaramente che il significato e l’uso sono conformi a quello di sheol nell’Antico Testamento. Entrambi i termini parlano di tomba o del regno dei morti e non del posto di punizione per gli empi.[7]

Il ricco e Lazzaro

La parola ades appare anche nella parabola dell’uomo ricco e Lazzaro, ma con un significato diverso. Mentre nei dieci testi appena esaminati l’ades si riferisce alla tomba o al regno dei morti, nella parabola del ricco e Lazzaro indica il luogo di punizione per gli empi (Lc 16:23).

Il motivo per quest’uso eccezionale sarà spiegato tra poco. Ovviamente i dualisti si rifanno spesso a questa parabola per sostenere la nozione dell’esistenza consapevole delle anime durante lo stato intermedio (Lc 16:19,31). Data l’importanza di questa parabola, è necessario esaminarla da vicino. Per prima cosa, occorre considerare i punti principali dell’episodio. Lazzaro e l’uomo ricco muoiono entrambi. La loro situazione «di vita» dopo la loro morte è ora rovesciata. Alla morte di Lazzaro, questi «fu portato dagli angeli nel seno di Abramo» (Lc 16:22), mentre l’uomo ricco fu condotto nell’ades e tormentato dalle fiamme scottanti (Lc 16:23). Benché un grande abisso li separasse, il ricco poteva vedere Lazzaro nel seno di Abramo. Il ricco prega Abramo di inviare Lazzaro a compiere due favori: il primo, «mandare Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito per rinfrescargli la lingua» (Lc 16:24) e il secondo mandare Lazzaro ad avvisare i membri della sua famiglia di pentirsi affinché non abbiano a sperimentare la sua stessa punizione. Abramo nega entrambe le richieste per due motivi. Il primo, perché c’era un grande vuoto che era impossibile per Lazzaro attraversare e venirgli così, in aiuto (Lc 16:26); il secondo, perché se questi suoi familiari non «ascoltano Mosè e i profeti, non saranno neppure convinti se uno risuscitasse dai morti» (Lc 16:31).

Prima di considerare la parabola, è necessario ricordare che, contrariamente all’allegoria del Pilgrim’s Progress, dove ogni dettaglio conta, quelli di una parabola non hanno necessariamente un significato, se non come «sostegni» al racconto. Una parabola è proposta per insegnare una verità fondamentale, e i dettagli non hanno un significato letterale, a meno che il contesto indichi diversamente. Da questo principio ne deriva un altro: solo l’insegnamento fondamentale di una parabola, confermato dal tenore generale della Scrittura, può esser legittimamente usato per definire una dottrina. Sfortunatamente questi due principi fondamentali sono ignorati da coloro che utilizzano i dettagli di una parabola per sostenere le proprie posizioni.

Per esempio, Robert A. Petersen trae lezioni dalle caratteristiche maggiori della parabola. «1. Come Lazzaro, quelli che Dio aiuta saranno portati dopo la morte alla presenza di Dio… 2. Come l’uomo ricco, gli impenitenti sperimenteranno il giudizio irrevocabile. Anche gli empi sopravvivono alla morte, solo per subire “tormento” e “agonia”… 3. Tramite la Scrittura, Dio rivela se stesso e la sua volontà affinché nessuno di coloro che disubbidiscono possano legittimamente protestare per il loro destino».[8]

Il tentativo di Petersen di trarre tre lezioni dalla parabola ignora il fatto che la lezione principale della parabola è data nell’ultima frase: «Se non ascoltano Mosè e i profeti, non crederanno neppure se uno risuscitasse dai morti» (Lc 16:31). Quindi, niente e nessuno può soppiantare la potenza della rivelazione che Dio ha dato nella sua Parola convincente. Interpretare la parabola del ricco e Lazzaro come una descrizione del destino futuro per i salvati e per i perduti, significa utilizzare la parabola per lezioni estranee al suo intento originale.

L’interpretazione letterale pone dei problemi

Coloro che interpretano la parabola come una rappresentazione letterale dello stato dei salvati e dei non salvati dopo la morte, si trovano a dover risolvere problemi non indifferenti. Se il racconto costituisse la vera descrizione dello stato intermedio, allora deve essere vero nei fatti e coerente nei dettagli. Se la parabola però è un semplice racconto, allora si tratta di cogliere la verità centrale che ne scaturisce. Un’interpretazione letterale della storia viene però a crollare sotto il peso delle sue stesse assurdità e contraddizioni.

I sostenitori del letteralismo sostengono che il ricco e Lazzaro siano spiriti senza corpo. Eppure il ricco è descritto come una persona che ha «occhi» che vedono, una «lingua» che parla e che cerca sollievo dal «dito» di Lazzaro: tutte parti concrete di un corpo. Essi vengono descritti come individui esistenti fisicamente, malgrado il fatto che il corpo del ricco fosse come di regola seppellito nella tomba. Il suo corpo era forse stato portato nell’ades insieme alla sua anima per sbaglio? Un abisso separa Lazzaro in cielo (seno di Abramo) dal ricco nell’ades. L’abisso è troppo largo per chiunque volesse attraversarlo ma abbastanza stretto per permettere una conversazione. Preso letteralmente significa che il cielo e l’inferno si troverebbero a una distanza geografica tale che permetterà di vedersi e parlarsi; così i santi e i peccatori potranno vedersi e comunicare tra loro per l’eternità. A questo punto, possiamo immaginare le reazioni di quei genitori che dal cielo vedrebbero i propri figli nel tormento dell’ades. Un simile spettacolo non distruggerebbe del tutto la gioia e la pace del cielo? Questa idea è inaccettabile.

Contrasto con altre verità bibliche

Un’interpretazione letterale della parabola contraddice alcune verità bibliche fondamentali. Se la parabola va letta letteralmente, allora Lazzaro ha ricevuto il suo premio e l’uomo ricco la sua punizione, immediatamente dopo la morte e prima del giorno del giudizio. La Bibbia insegna chiaramente che le ricompense e le punizioni, e anche la separazione fra i santi e i reprobi, avverranno nel giorno della venuta di Cristo: «Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria… e tutte le genti saranno radunate davanti a lui, ed egli separerà gli uni dagli altri» (Mt 25:31,32). «Ecco, io vengo presto e il mio premio è con me, per rendere a ognuno secondo le opere che egli ha fatto» (Ap 22:12). Paolo si aspettava di ricevere «la corona di giustizia» nel giorno dell’apparizione di Cristo (2 Tm 4:8).

Un’interpretazione letterale della parabola contraddice anche la testimonianza concorde dell’Antico e del Nuovo Testamento che i morti, giusti ed empi, giacciano nel silenzio e nell’incoscienza della morte fino al giorno della risurrezione (cfr. Ec 9:5,6; Gb 14:12,15,20,21; Sal 6:5; 115:17). Un’interpretazione letterale contrasta anche l’uso di ades nel Nuovo Testamento che indica la tomba o il regno dei morti, e non già un luogo di tormento. Si è già precedentemente notato che dieci volte su undici l’ades sia esplicitamente collegato con la morte e la tomba. L’uso eccezionale di ades in questa parabola come luogo di tormento tra le fiamme (Lc 16:24) deriva non già dalla Scrittura, ma da tradizioni popolari giudaiche influenzate dalla mitologia greca.

Concetti popolari giudaici

Fortunatamente, sono giunti fino a noi, scritti giudaici che gettano luce sulla parabola dell’uomo ricco e Lazzaro. Rivelatore è il «discorso ai greci riguardo l’ades» scritto da Giuseppe Flavio, famoso storico giudeo vissuto durante i tempi del Nuovo Testamento (morto intorno all’anno 100). Il suo discorso sembra andare di pari passo con il racconto dell’uomo ricco e Lazzaro. In esso, Giuseppe Flavio spiega che «l’ades è una regione sotterranea dove la luce di questo mondo non splende… Questa regione è prevista come luogo di custodia per le anime e nella quale gli angeli sono posti come guardiani per infligger loro punizioni temporanee, secondo la condotta e il modo di agire di ognuno».[9]

Giuseppe Flavio sostiene inoltre che l’ades sia divisa in due sezioni. Una è «la regione della luce» dove le anime dei morti giusti sono portate dagli angeli al «luogo che chiamiamo seno di Abramo».[10] La seconda regione è nelle «tenebre eterne» e le anime degli empi sono trascinate con forza «dagli angeli loro assegnati per la punizione».[11] Questi angeli trascinano gli empi «nel quartiere dell’inferno stesso», così che possano vedere e sentire il calore delle fiamme.[12] Ma non vengono gettati nell’inferno medesimo fino a dopo il giudizio finale. «Un caos profondo e largo è posto fra di loro, a tal guisa che un uomo giusto, che avesse pietà di loro, non potrebbe varcarlo. Nemmeno un ingiusto, se fosse sfacciato abbastanza da tentarvi».[13]

Le impressionanti similitudini fra la descrizione dell’ades di Giuseppe Flavio e la parabola del ricco Epulone e Lazzaro sono evidenti: nei due racconti abbiamo due regioni che separano i giusti dagli empi, il seno d’Abramo è la dimora dei giusti, c’è un grande abisso che non può essere attraversato e gli abitanti di una regione possono vedere quelli dell’altra.

La descrizione di Giuseppe Flavio dell’ades non è unica. Si trovano descrizioni simili in altri scritti giudaici.[14]

Questo significa che Gesù cita una tradizione popolare del suo tempo circa la condizione dei morti nell’ades e questo non per approvare queste vedute, ma per sottolineare l’importanza di dare ascolto oggi agli insegnamenti di Mosè e dei profeti perché questo fatto può determinare la beatitudine o la miseria nel mondo futuro.

L’uso delle convinzioni comuni da parte di Gesù

A questo punto, potrebbe essere giusto chiedersi: «Perché Gesù ha raccontato una parabola basata su convinzioni che, anche se diffuse, non rappresentavano la verità come viene espressa nella Scrittura?». La risposta potrebbe essere che Gesù desiderava comunicare con la gente ponendosi al loro stesso livello; egli parte da ciò che è per loro familiare per insegnar loro delle verità esistenziali. Molti suoi ascoltatori avevano accolto la dottrina di un’esistenza consapevole fra la morte e la risurrezione, benché tale credenza fosse estranea alla Scrittura. Questa convinzione, pur se erronea, era stata adottata durante il periodo intertestamentario nel processo di ellenizzazione del giudaismo e al tempo di Gesù era già stabilmente accolta.

In questa parabola Gesù ha utilizzato un racconto popolare, non certo per dargli la sua approvazione quanto piuttosto per imprimere nelle menti dei suoi ascoltatori un’importante lezione spirituale. Merita qui sottolineare che anche nella parabola precedente del fattore infedele (Lc 16:1,12), Gesù si serve di un racconto che non rappresenta l’etica biblica. Da nessuna parte la Bibbia approva l’operato di un amministratore disonesto che dimezzi i debiti arretrati dei creditori per ottenere un beneficio personale. La lezione della parabola può essere un invito a farsi degli amici per se stessi (Lc 16:9) e non certamente a imbrogliare negli affari.

John W. Cooper riconosce che la parabola dell’uomo ricco e di Lazzaro «non dice necessariamente ciò che Gesù o Luca credevano circa la vita ultraterrena, né fornisce una base per la dottrina sullo stato intermedio. Gesù ha usato un’immagine comune semplicemente per comunicare meglio il suo insegnamento etico. Non vuol dire che egli condividesse questo racconto né che credesse nel suo contenuto».[15]

Cooper pone la domanda: «Che cosa dice questo episodio circa lo stato intermedio?». Risponde nettamente e onestamente in questo modo: «La risposta è niente. La causa dualista non può appoggiarsi a questo brano per sostenere la sua tesi».[16]

La ragione che adduce è questa: non si possono trarre conclusioni dogmatiche da una parabola. Per esempio, Cooper si chiede: «Saremo esseri corporei (nello stato intermedio)? Saranno i beati e i condannati capaci di vedersi?».[17]

Gesù e il ladrone sulla croce

La breve conversazione fra Gesù e il ladrone pentito sulla croce accanto a lui (Lc 23:42,43), è usata dai dualisti come prova maggiore dell’esistenza consapevole dei morti fedeli in paradiso prima della risurrezione. Quindi, è importante esaminare attentamente le parole di Gesù. A differenza dell’altro criminale e della maggior parte della folla, il ladrone pentito credeva che Gesù fosse il Messia e gli chiese: «Gesù, ricordati di me quando verrai nel tuo regno» (Lc 23:42). Gesù gli rispose: «In verità ti dico oggi tu sarai con me in paradiso» (Lc 23:43).

Una questione fortemente dibattuta relativamente all’interpretazione di questo testo è data dalla posizione della virgola che nella maggior parte delle traduzioni è posta prima di «oggi». Così la maggior parte dei lettori e dei commentatori ritengono che Gesù abbia detto: «Oggi sarai con me in paradiso».

Questa lettura può significare che «in quel giorno»[18] il ladrone sarebbe asceso al paradiso con Cristo.

Il testo originale greco, comunque, non ha nessuna punteggiatura e, tradotto letteralmente, dice: «In verità a te dico oggi con me sarai in paradiso». L’avverbio «oggi» (semeron) si trova fra il verbo «dico» (lego) e «sarai» (ese). Questo significa che grammaticalmente l’avverbio «oggi» può applicarsi a ciascuno dei due verbi. Se è riferito al primo verbo, allora è come se Gesù avesse detto: «In verità ti dico oggi, tu sarai con me in paradiso».

I traduttori hanno posto la virgola prima dell’avverbio «oggi», non per ragioni grammaticali, ma perché spinti dalla convinzione teologica che i morti ricevano alla morte la loro ricompensa. Sarebbe davvero opportuno che i traduttori si limitassero a tradurre il testo e lasciassero al lettore il compito di interpretare.

Qual è la domanda che il testo ci pone? Gesù voleva dire: «In verità, io ti dico oggi…» oppure «Oggi tu sarai con me in paradiso»? Coloro che sostengono che Gesù volesse dire: «Oggi tu sarai con me in paradiso” si appellano al fatto che l’avverbio «oggi» non appaia altrove con la frase frequentemente usata: «In verità ti dico».

Questa è un’osservazione valida, ma la ragione per quest’insolita unione dell’avverbio «oggi» alla frase: «In verità io ti dico» potrebbe essere giustamente data dal contesto immediato. Il ladrone ha chiesto a Gesù di ricordarsi di lui in futuro quando avrebbe stabilito il suo regno messianico. Gesù risponde ricordando immediatamente al condannato pentito «oggi» rassicurandolo che sarebbe stato con lui in paradiso.

Quest’interpretazione poggia su tre considerazioni importanti: il significato di paradiso nel Nuovo Testamento, il tempo in cui i salvati erederanno la loro ricompensa in paradiso e il tempo del ritorno di Gesù in paradiso.

Che cos’è il paradiso?

La parola «paradiso» (paradeisos) appare solo due volte nel Nuovo Testamento oltre a quest’uso in Luca 23:43. In 2 Corinzi 12:2,4 Paolo racconta un’esperienza estatica essendo «rapito in paradiso», che situa «nel terzo cielo» (2 Cor 12:2). È evidente che per Paolo il paradiso è nel cielo. In Apocalisse 2:7, il Signore fa questa promessa: «A chi vince io darò da mangiare dall’albero della vita, che è in mezzo al paradiso di Dio». Qui il paradiso è associato all’albero della vita che si trova anche nella nuova Gerusalemme: «… d’ambo i lati del fiume stava l’albero della vita che dà dodici raccolti e porta il suo frutto ogni mese» (Ap 22:2). Tutto questo suggerisce che il paradiso è l’abitazione eterna dei redenti nel «giardino dell’Eden» restaurato. Perciò, quando Gesù rassicura il ladrone pentito di riservargli un posto con lui nel «paradiso», fa riferimento alle «molte dimore» nella «casa del Padre» suo, e allo stesso tempo al suo ritorno in gloria quando «tornerà per ricevere i suoi» (Gv 14:1,3). Durante tutto il suo ministero Gesù ha insegnato che i redenti sarebbero entrati nel regno di suo Padre alla sua venuta: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno che vi è stato preparato sin dalla fondazione del mondo» (cfr. Mt 25:34; 16:27). Paolo ha insegnato la stessa verità. Alla seconda venuta di Gesù, i santi addormentati saranno risuscitati e i santi viventi trasformati, e tutti «verremo rapiti insieme…sulle nuvole per incontrare il Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore» (1 Ts 4:17). È in quel momento, dopo la risurrezione dei giusti, che il ladrone sarà con Gesù in paradiso.

Gesù quando è tornato in paradiso?

Quelli che interpretano l’affermazione di Gesù come se in quel giorno il ladrone sarebbe asceso in paradiso per essere con Cristo, affermano che entrambi, Gesù e il ladrone, sono saliti in cielo subito dopo la loro morte. Questa conclusione però non è sostenibile con la Scrittura.

La Bibbia insegna esplicitamente che nel giorno della sua crocifissione, Cristo è sceso nella tomba (ades). Alla Pentecoste, Pietro proclamò che secondo la profezia di Davide (Sal 16:10), Cristo «non sarebbe stato lasciato nell’ades, e che la sua carne non avrebbe veduto la corruzione”, ma sarebbe stato risuscitato da Dio (At 2:31,32). L’ades, come già visto, è insistentemente associato nel Nuovo Testamento con la tomba o il regno dei morti. L’unica eccezione è Luca 16:23 dove l’ades indica un luogo di tormento e non il paradiso. Questo significato ha origine nella concezione popolare giudaica influenzata a sua volta dalla mitologia greca e non dalla Scrittura. Questo significa che Cristo difficilmente avrebbe potuto dire al ladrone che in quel giorno stesso sarebbe stato con lui in paradiso, quando sapeva che in quel giorno si sarebbe riposato nella tomba.

Coloro che affermano che solo il corpo di Cristo sia sceso nella tomba mentre la sua anima è ascesa al cielo, ignorano ciò che Gesù ha detto a Maria nel giorno della sua risurrezione: «Non toccarmi, perché non sono ancora salito al Padre mio» (Gv 20:17). È evidente che Gesù non era in cielo durante i tre giorni della sua sepoltura. Egli stava riposando nella tomba, aspettando che il Padre lo chiamasse di nuovo alla vita. Per questo, dunque, il ladrone difficilmente poteva essere andato con Gesù in paradiso subito dopo la sua morte. Gesù stesso non era asceso al Padre se non qualche tempo dopo la sua risurrezione. Per meglio comprendere il significato di «essere con Cristo in paradiso» conviene considerare l’uso che fa Paolo della frase «essere con Cristo».

«Partire ed essere con Cristo»

Scrivendo ai Filippesi, Paolo dice: «Il mio desiderio è di partire e di essere con Cristo, il che è di gran lunga migliore. Ma il rimanere nella carne è più necessario per voi» (1:23, 24). I dualisti considerano questo testo una delle prove più convincenti che alla morte l’anima dei salvati vada immediatamente alla presenza di Cristo. Per esempio, Robert A. Morey afferma: «Questo è il passo più chiaro del Nuovo Testamento che parli della sorte del credente, il quale, dopo la morte, va nel cielo con Cristo. Questo testo parla del desiderio di Paolo di partire da questa vita terrena per una vita celeste con Cristo. Non c’è nessuna menzione o accenno della risurrezione in questo passo».[19]

L’espressione di Paolo: «Ho il desiderio di partire e di essere con Cristo, perché è molto meglio» non si pone su un piano antropologico ma su quello relazionale. Si tratta del riconoscimento di una relazione esistente tra Cristo e il credente che la morte non può eliminare e non riguarda invece lo stato dell’anima o del corpo dopo la morte.

Helmut Thielicke indica correttamente che il Nuovo Testamento non è tanto interessato allo stato intermedio, quanto piuttosto alla relazione che esiste fra il credente e Cristo nonostante la morte. L’unione con Cristo non è interrotta dalla morte perché il credente che dorme in lui non ha nessuna consapevolezza del tempo che passa. Come dice Thielicke: «La rimozione del senso del tempo significa, per coloro che si svegliano dalla lunga notte della morte, che essa è un semplice punto matematico perché chiamati a una vita completa».[20]

I tentativi di cogliere in questa frase di Paolo un sostegno per la sopravvivenza dell’anima o la sua ascensione subito dopo la morte, non sono fondati perché, come osserva giustamente Ray S. Anderson, «Paolo non pensava che la questione della condizione della persona fra la morte e la risurrezione fosse una questione da considerare».[21]

La ragione per Paolo è che quanti «muoiono in Cristo» stanno «dormendo in Cristo» (cfr. 1 Cor 15:18; 1 Ts 4:14). La loro condizione con Cristo è di immediatezza, perché non hanno nessuna consapevolezza del passare del tempo fra la morte e la risurrezione, sperimentando quello che può esser chiamato «tempo eterno». Per quanti continuano a vivere nel tempo limitato, legato alla terra, c’è un intervallo fra la morte e la risurrezione. La difficoltà è posta dal fatto che non è possibile sincronizzare l’orologio del tempo eterno con quello temporale.

Questo è il tentativo che ha condotto a controverse e sfortunate speculazioni sul cosiddetto stato intermedio. Con il suo desiderio di «essere con Cristo», Paolo non stava in alcun modo esprimendo la certezza dottrinale di quello che succede dopo la morte, ma stava semplicemente esprimendo il proprio desiderio di vedere la fine della sua tormentata esistenza ed essere con Cristo. Attraverso i secoli i cristiani hanno sinceramente espresso lo stesso desiderio, senza necessariamente attendersi di essere introdotti alla presenza di Cristo al momento della loro morte. L’affermazione di Paolo deve essere interpretata sulla base dei suoi chiari insegnamenti in merito al momento in cui i credenti saranno uniti con Cristo.

Con Cristo alla sua venuta

Paolo affronta questo problema nella lettera ai Tessalonicesi in cui spiega che tutti i credenti, addormentati e viventi, saranno uniti con Cristo, non alla morte, ma alla sua venuta. «Prima risusciteranno i morti in Cristo; poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo rapiti insieme con loro, sulle nuvole, a incontrare il Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore» (1 Ts 4:16,17). Il «così» (houtos) si riferisce alla maniera o al modo in cui i credenti saranno con Cristo, cioè non per la morte, ma per la risurrezione o la trasformazione alla sua venuta. Basil F.C. Atkinson nota che la parola «così», in greco houtos «significa “in questo modo”». Posto all’inizio della frase ne enfatizza il senso: «Questa è la maniera con cui saremo sempre con il Signore; quindi non esiste altro modo per stare con il Signore fino al giorno della risurrezione».[22]

Va notato che nel descrivere l’unione che i credenti sperimenteranno alla venuta di Cristo, Paolo non parli mai di spiriti senza corpo che si riuniscano con corpi risuscitati. Piuttosto, parla di «morti in Cristo» che vengono risuscitati (1 Ts 4:16). Ovviamente, ciò che risuscita alla venuta di Cristo non saranno solo corpi morti, ma persone morte. È l’intera persona che sarà risuscitata e riunita con Cristo. Va altresì notato che i santi viventi incontreranno Cristo nello stesso momento «assieme con» i santi risuscitati (1 Ts 4:17). I santi addormentati e viventi incontrano Cristo «assieme» alla sua venuta, non alla morte. L’assenza totale di qualsiasi accenno di Paolo a una pretesa riunione del corpo con l’anima al momento della risurrezione stabilisce, secondo me, la sfida più concreta alla nozione della sopravvivenza dell’anima. Se Paolo avesse saputo qualcosa al riguardo, sicuramente ne avrebbe fatto cenno, specialmente nella sua discussione dettagliata su quello che accadrà ai credenti morti o viventi alla venuta di Cristo (cfr. 1 Ts 4:13,18; 1 Cor 15:42,58). Il fatto che Paolo non abbia mai accennato alla sopravvivenza dell’anima e al ricongiungimento con il corpo alla risurrezione, mostra chiaramente che questa nozione gli era totalmente sconosciuta.

G.C. Berkouwer osserva correttamente che: «I credenti del Nuovo Testamento non sono orientati verso una loro “beatitudine privata” così che dimentichino il regno futuro, ma si aspettano veramente di essere “con Cristo”, poiché in lui hanno ottenuto un nuovo futuro».[23]

La speranza escatologica dell’essere con Cristo non è una speranza individualistica che si realizza alla morte con anime senza corpo, ma una speranza generale che si concretizza alla venuta di Cristo attraverso la risurrezione e la trasformazione della persona intera e di tutti i credenti.

 

Il desiderio di Paolo di «“partire ed essere con Cristo” non riflette la voglia di un intimo entre nous (fra di noi) nel cielo, perché la frase è totalmente legata alla redenzione cosmica della fine dei tempi».[24]

La dimensione cosmica generale dell’esperienza «con Cristo» è evidente nella stessa epistola ai Filippesi, dove Paolo parla ripetutamente del compimento della speranza cristiana nel giorno della venuta di Cristo. Egli rassicura i filippesi e dice: «Colui che ha cominciato in voi un’opera buona, la condurrà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù» (Fil 1:6). Il completamento e il compimento della redenzione, dunque, avviene non andando a stare con Cristo dopo la morte, ma incontrandolo nel giorno glorioso della sua venuta. La preghiera di Paolo per i filippesi è che essi «siano limpidi e irreprensibili per il giorno di Cristo» (v. 10). In quel giorno, Cristo: «trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, mediante il potere che egli ha di sottomettere a sé ogni cosa» (3:21).

È questo cambiamento dalla mortalità all’immortalità che rende possibile ai credenti di essere con Cristo. Nella stessa epistola, Paolo afferma che «non ritiene di aver già afferrato» il premio, ma corre verso quel giorno perché è certo che riceverà «il premio della celeste vocazione di Dio in Cristo Gesù» (3:13,14), non alla morte, ma nel giorno glorioso della venuta di Cristo.

«A casa con il Signore»

In 2 Corinzi 5:1-10, Paolo esprime di nuovo la speranza di essere con Cristo usando diverse metafore. Questo passo è considerato giustamente il crux interpretum, fondamentalmente perché il linguaggio metaforico è nascosto e aperto a diverse interpretazioni. Sfortunatamente, molti interpreti sono desiderosi di ricavare da questo passo, come da Filippesi 1:22,23, precise definizioni antropologiche, cronologiche o cosmologiche in merito alla vita dopo la morte. Queste preoccupazioni, tuttavia, sono lontane dal pensiero paolino, il quale usa il linguaggio della fede per esprimere le sue speranze e le sue paure in merito alla vita presente e a quella futura e non già il linguaggio logico della scienza per spiegare la vita ultraterrena. Tutto questo dovrebbe mettere in guardia il lettore in modo da evitare di far dire a Paolo cose che non ha mai inteso esprimere.

Il passo inizia con la preposizione gar «infatti» e mostra che Paolo collega il suo discorso con il paragrafo precedente nel quale mette in contrasto la natura effimera e mortale della vita presente che si «va disfacendo» (2 Cor 4:16), con la natura eterna e gloriosa della vita futura che produce uno «smisurato peso eterno di gloria» (v. 17). Paolo prosegue il suo ragionamento nel capitolo 5 e sviluppa il contrasto tra le cose passeggere e quelle durature ed eterne, usando l’immagine delle due dimore, simboli di queste caratteristiche. «Sappiamo infatti che se questa tenda che è la nostra dimora terrena viene disfatta, abbiamo da Dio un edificio, una casa non fatta da mano d’uomo, eterna, nei cieli. Perciò in questa tenda gemiamo, desiderando intensamente di essere rivestiti della nostra abitazione celeste, se pure saremo trovati vestiti e non nudi. Poiché noi che siamo in questa tenda, gemiamo, oppressi; e perciò desideriamo non già di essere spogliati, ma di essere rivestiti, affinché ciò che è mortale sia assorbito dalla vita. Or colui che ci ha formati per questo è Dio, il quale ci ha dato la caparra dello Spirito» (2 Cor 5:1-5).

Nella prima parte del testo, Paolo usa due serie di metafore contrastanti. Nella prima, contrappone «la tenda terrena», soggetta alla distruzione, all’«edificio di Dio, un’abitazione non fatta da mano d’uomo», che è «eterna nei cieli». Poi, Paolo sottolinea questo contrasto, differenziando lo stato d’esser trovati vestiti con la dimora celeste e quello d’esser trovati nudi. Nella seconda parte, i versetti da 6 al 10, è più schietto e mette in contrasto l’essere nel corpo e perciò lontani dal Signore, con l’esser lontani dal corpo e a casa con il Signore. L’affermazione chiave appare nel versetto 8 dove Paolo dice: «Siamo pieni di fiducia e preferiamo partire dal corpo e abitare con il Signore».

L’enorme varietà di interpretazioni intorno a questo brano possono essere divise in tre maggiori raggruppamenti, ciascuno dei quali poggia direttamente su precise presupposizioni. La storia dell’interpretazione di 2 Corinzi 5:1,10 mostra chiaramente quanto l’esegesi e l’interpretazione siano influenzate da supposizioni preconcette. È utile, anche se in maniera succinta, presentare le tre scuole di pensiero per l’interpretazione di questo brano:

  1. Lo stato intermedio;
  2. La risurrezione del corpo dopo la morte;
  3. La risurrezione del corpo alla venuta di Cristo.

Lo stato intermedio

La maggior parte degli studiosi del passato e del presente ritengono che in questo brano Paolo descriva l’esistenza del credente in cielo con Cristo durante lo stato intermedio tra la morte e la risurrezione.[25]

In altre parole, questo pensiero potrebbe essere così riassunto: la tenda e il vestito presente sono l’esistenza terrena; l’essere spogliati significa morire, con il risultato d’esser in uno stato di nudità che significherebbe l’esistenza dell’anima senza il corpo durante lo stato intermedio. L’edificio che abbiamo nel cielo rappresenta, per alcuni, il corpo che sarà riunito all’anima alla risurrezione, mentre per altri, è l’anima stessa che dimora nel cielo.

Robert Morey è di questo parere: «Dove nella Scrittura viene detto che il nostro corpo risorto è già creato e ci sta aspettando nel cielo? L’unica risposta logica è che Paolo parla della dimora dell’anima nel cielo».[26] Sulla base di questi versetti, Morey afferma che «la dimora (dell’anima) quando la persona è in vita è la terra, mentre il luogo della dimora dopo la morte è il cielo».[27]

Esistono tre grandi problemi nell’interpretazione dello stato intermedio a proposito di questo passo. Primo, s’ignora che il contrasto tra l’edificio celeste e la tenda terrena è relativo allo spazio e non al tempo. Paolo mette in contrapposizione l’esistenza celeste con quella terrena. L’apostolo non vuole affatto sapere qual è lo stato dell’anima tra la morte e la risurrezione. Ora, se l’apostolo si fosse aspettato d’essere con Cristo dopo la morte con la sua anima liberata dalla «prigione» del corpo, perché non l’ha detto più chiaramente? Avrebbe potuto dire: «Sappiamo che se la tenda terrena dove abitiamo è distrutta… noi saremo con le nostre anime alla presenza di Dio nel cielo». Paolo, in tutti i suoi scritti, non allude mai alla sopravvivenza e all’esistenza dell’anima alla presenza di Cristo. Perché? Semplicemente perché questa nozione è assente dai suoi pensieri ed estranea alla Scrittura. Secondo, se lo stato di nudità fosse l’esistenza dell’anima alla presenza di Cristo durante lo stato intermedio, perché Paolo è così esitante davanti al pensiero di esser «trovato nudo»? (2 Cor 5:3). Dopo tutto, questo avrebbe adempiuto il suo desiderio sincero di essere «a casa con il Signore» (2 Cor 5:8)! Il fatto è che la nozione di nudità, come stato dell’anima priva di corpo, si trova negli scritti di Platone e di Filone,[28] ma non in quelli di Paolo.

Terzo, se l’edificio celeste fosse "la dimora dell’anima nel cielo", allora i credenti dovrebbero avere due anime, una sulla terra e l’altra nel cielo perché Paolo dice che "abbiamo un edificio da Dio". Il tempo presente indica un possesso presente. Come può l’anima del credente essere nel cielo con Cristo e sulla terra con il corpo allo stesso momento?

Il corpo risorto dopo la morte

Un certo numero di studiosi ritiene che l’«edificio celeste» sia il corpo risorto, che i credenti ricevono immediatamente dopo la morte.[29]

Paolo insegna che la vita umana è rappresentata dalla «tenda terrena» (2 Cor 5:1, 4), che viene immediatamente seguita dall’acquisizione del corpo risorto, rappresentato dall’«edificio» che abbiamo da Dio, «una casa eterna nei cieli» (2 Cor 5:1). In questo modo si ritiene che Paolo rifiuti totalmente la condizione intermedia dell’«essere nudo» o «spogliato» (2 Cor 5:3,4). Questa opinione poggia sulla premessa che durante l’intervallo fra la prima e la seconda lettera ai Corinzi, Paolo abbia avuto una sorta di incontro ravvicinato con la morte e che ciò l’abbia portato a rinunciare alla sua precedente speranza di risurrezione alla parusia, per giungere a credere, invece, che i credenti riceveranno i loro corpi risorti al momento della morte.[30]

Questa seconda interpretazione pone un problema fondamentale: si presume che Paolo negli anni successivi abbia abbandonato la speranza nella risurrezione alla parusia in favore di una risurrezione immediata dopo la morte. Se questo fosse vero, i cristiani dovrebbero sciogliere il complesso dilemma di dover scegliere a quale Paolo credere: al primo Paolo o a quello successivo? Fortunatamente un tale dilemma non ha ragione di esistere perché Paolo non ha mai modificato il proprio punto di vista intorno alla speranza della risurrezione. Questo è indicato dal contesto immediato del passo in esame, che menziona specificatamente la risurrezione al ritorno di Cristo: «Sapendo che colui che risuscitò il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù, e ci farà comparire con voi alla sua presenza» (2 Cor 4:14). Paolo difficilmente poteva affermare più chiaramente che Cristo ci risusciterà e ci porterà alla sua presenza al momento della sua venuta e non alla morte.

Se Paolo avesse modificato le proprie opinioni circa la risurrezione in un momento successivo alla stesura di 1 Corinzi 15, ci chiediamo perché abbia detto «sappiamo» (2 Cor 5:1), in quel «sappiamo» è compreso un insegnamento noto a tutti. Inoltre, persino nelle sue ultime lettere, Paolo collega esplicitamente la risurrezione al ritorno glorioso di Cristo (cfr. Rm 8:22,25; Fil 3:20,21). Ci sembra molto difficile, se non impossibile, credere che Paolo possa aver alterato per ben due volte la propria escatologia.

Il corpo risorto alla parousia

Negli anni recenti, un buon numero di studiosi ha difeso l’interpretazione secondo la quale l’edificio celeste sia il «corpo spirituale» dato ai credenti al momento della venuta di Cristo.[31]

Ci sono, in effetti, elementi in questo passo che appoggiano questo modo di comprendere. É l’affermazione che quando si è rivestiti il mortale sarà assorbito dalla vita (2 Cor 5:4).

Queste affermazioni sono singolarmente simili all’immagine che si trova in 1 Corinzi 15:53, dove Paolo parla del cambiamento che i credenti sperimenteranno alla venuta di Cristo: «Infatti bisogna che questo corruttibile rivesta incorruttibilità e che questo mortale rivesta immortalità». Quanti sostengono quest’opinione protestano contro un’escatologia del cielo che si concentri sulla beatitudine individuale ottenuta immediatamente dopo la morte. La loro argomentazione poggia su questo: «Se Paolo si aspettava di ricevere un corpo spirituale subito (alla morte) allora una risurrezione nell’ultimo giorno non sarebbe più necessaria».[32]

In modo più diretto possiamo dire che coloro che propongono questa opinione interpretano le metafore di Paolo in questo modo: mentre l’uomo vive sulla terra è rivestito con la «tenda terrena» del corpo mortale; alla morte viene «spogliato» e i corpi sono «distrutti» nella tomba.

Alla venuta di Cristo, ci «vestiremo con la dimora celeste» scambiando il nostro corpo mortale con un corpo glorioso immortale. Quest’interpretazione è in armonia con il messaggio biblico, eppure anch’essa presenta un punto debole. I commentatori si concentrano principalmente sul corpo, sia che si intenda il «corpo spirituale» dato individualmente ai credenti alla morte o a tutti i credenti insieme alla venuta di Cristo. Paolo, invece, non cerca di definire lo stato del corpo prima della morte, dopo la morte o alla venuta di Cristo, ma di informare intorno a due modi diversi di esistere.

Vita terrena e vita celeste

Dopo aver letto e riletto questo brano innumerevoli volte, mi sembra che l’interesse principale di Paolo non consista nel definire lo stato del corpo prima o dopo la morte, ma piuttosto nel contrastare due diversi modi di vivere. Uno è quello celeste: «abbiamo da Dio un edificio, una casa non fatta da mano d’uomo, eterna, nei cieli» (2 Cor 5:1). L’altro, è il modo terreno rappresentato dalla «tenda terrena» che viene «distrutta» alla morte.

Il significato delle immagini del «vestirsi» o «esser rivestiti» con «la nostra dimora celeste» può aver a che fare più con l’accettazione del provvedimento della salvezza di Cristo, piuttosto che con «il corpo spirituale” dato ai credenti alla parousia. È possibile giungere a questa conclusione se si accetta simbolicamente che la «dimora celeste» si riferisca a Dio e l’«essere rivestiti» si riferisca all’accettazione di Cristo da parte del credente.

L’assicurazione di Paolo che «abbiamo da Dio un edificio” (2 Cor 5:1) ricorda altri testi, come: «Dio è per noi un rifugio e una forza» (Sal 46:1), oppure «Signore, tu sei stato per noi un rifugio» (Sal 90:1). Cristo ha proposto se stesso come tempio in maniera singolarmente simile all’immagine di Paolo della dimora celeste «non fatta da mano d’uomo». Gesù ha detto: «Io distruggerò questo tempio fatto da mani d’uomo e in tre giorni ne ricostruirò un altro, non fatto da mani d’uomo» (Mc 14:58). Se Paolo avesse pensato in questo modo, allora la dimora celeste è Cristo stesso che offre il dono della vita eterna a tutti i credenti.

Come può un credente rivestirsi con «la dimora celeste»? L’uso paolino della metafora del «vestire» può fornire una risposta. «Voi tutti che siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo» (Gal 3:27). In questo testo, il vestirsi è associato con l’accettazione di Cristo al battesimo. Paolo dice anche: «Bisogna che questo corruttibile rivesta incorruttibilità e questo mortale rivesta immortalità» (1 Cor 15:53). Qui il vestirsi si riferisce al ricevimento dell’immortalità alla venuta di Cristo. Questi due riferimenti suggeriscono che il «vestirsi» possa indicare la nuova vita in Cristo, accettata al battesimo, rinnovata ogni giorno e compiuta alla parusia. Quanto, poi, all’abbigliamento ultimo, verrà posto mediante il cambiamento dalla mortalità all’immortalità.

Alla luce di questa interpretazione, «essere trovati nudi» o «spogliati” (2 Cor 5:3,4), può contrastare con l’essere vestiti con Cristo e con il suo Spirito. Molto probabilmente l’essere «nudi» per Paolo non rappresenta tanto l’anima spogliata dal corpo, quanto la colpa e il peccato che conduce alla morte. Quando Adamo ha peccato, ha scoperto d’esser «nudo» (Gn 3:10). Ezechiele allegoricamente descrive il modo in cui Dio ha vestito Israele con vesti ricamate, ma poi ha esposto la sua nudità a motivo della sua disubbidienza (Ez 16:8,14). Si potrebbe ancora pensare all’uomo senza «l’abito» alla festa delle nozze (Mt 22:11).

È possibile allora pensare che essere «nudi», per Paolo, significhi esser in una condizione mortale, peccaminosa e priva della giustizia di Cristo. Paolo chiarisce quanto vuole dire con l’essere «spogliati» o «nudi» in contrasto con l’essere vestiti, quando dice: «Affinché ciò che è mortale sia assorbito dalla vita» (2 Cor 5:4). Quest’affermazione, interpretata alla luce di 1 Corinzi 15:53 permette di comprendere come i nostri corpi mortali saranno trasformati in corpi spirituali.

Nella prima lettera ai Corinzi, Paolo è interessato principalmente al corpo in quanto tale? Una cauta lettura di 1 Corinzi 15, suggerisce che l’apostolo affronti solo incidentalmente la questione del corpo, per poter rispondere alla domanda: «Come risuscitano i morti? E con quale corpo ritornano?” (1 Cor 15:35). Dopo aver mostrato la continuità fra il corpo presente e quello futuro, Paolo passa alla questione più grande della trasformazione che l’intera natura umana sperimenterà alla venuta di Cristo: «Infatti bisogna che questo corruttibile rivesta incorruttibilità e che questo mortale rivesta immortalità» (1 Cor 15:53).

Lo stesso discorso si può applicare al brano della seconda lettera ai Corinzi al capitolo 5. Paolo non è interessato allo stato del corpo o dell’anima in quanto tali, prima o dopo la morte. Egli non parla mai, per esempio, dell’anima o del «corpo spirituale» in 2 Corinzi 5, perché il suo interesse è di mostrare il contrasto tra il modo terreno dell’esistenza rappresentato dalla «dimora terrena» e il modo celeste rappresentato dalla «dimora celeste». Il primo è mortale e l’ultimo immortale («assorbito dalla vita;» 2 Cor 5:4). Il primo è vissuto «dimorando nel corpo» e «lontani dal Signore» (2 Cor 5:6). L’ultimo è sperimentato «lontani dal corpo» e «abitando con il Signore» (2 Cor 5:8). Non riconoscere che Paolo stia parlando di due modi diversi dell’esistenza e non dello stato del corpo o dell’anima dopo la morte, ha condotto a speculazioni erronee e inutili circa la vita ultraterrena. Un valido esempio è l’affermazione di Robert Petersen: «Paolo conferma l’insegnamento di Gesù quando contrappone “abitare nel corpo” ed essere “assenti dal Signore” con “partire dal corpo e abitare con il Signore” (2 Cor 5:6,8). Egli presuppone che la natura umana sia composta da elementi materiali e spirituali».[33]

Quest’interpretazione è del tutto gratuita, perché né Gesù né Paolo sono interessati a definire ontologicamente la natura umana, e cioè, relativamente ai suoi diversi componenti materiali o immateriali. Invece, il loro interesse è definire la natura umana su base etica e sulla relazione in termini di disubbidienza e ubbidienza, di peccato e giustizia, di mortalità e immortalità. In 2 Corinzi 5:1-10, Paolo parla di un modo di vivere terreno paragonato a quello celeste, in cui l’uomo cerca una relazione con Dio e non si preoccupa di sapere quali sono gli elementi che compongono la sua natura umana prima e dopo la morte. Passiamo adesso all’ultimo brano problematico del Nuovo Testamento: le anime sotto l’altare.

Le anime sotto l’altare

«Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi sotto l’altare le anime di quelli che erano stati uccisi per la parola di Dio e per la testimonianza che gli avevano resa. Essi gridarono a gran voce: “Fino a quando aspetterai, o Signore santo e veritiero, per fare giustizia e vendicare il nostro sangue su quelli che abitano sopra la terra?” E a ciascuno di essi fu data una veste bianca e fu loro detto che si riposassero ancora un po’ di tempo, finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli, che dovevano essere uccisi come loro» (Ap 6:9-11). Questo testo è spesso citato per sostenere che le «anime» dei santi vivono nel cielo, dopo la morte, come spiriti coscienti. Per esempio, Robert Morey con convinzione afferma: «Le anime sono gli spiriti disincarnati dei martiri che gridano a Dio per ottenere la vendetta sui loro nemici… Questo passo ha da sempre creato grande difficoltà a coloro che negano che i credenti ascendano al cielo dopo la morte. Nel linguaggio di Giovanni, è chiaro che queste anime sono consapevoli e attive nel cielo».[34]

Quest’interpretazione, però, ignora che i ritratti apocalittici non sono stati intesi come fotografie di realtà concrete, ma rappresentazioni simboliche di realtà spirituali quasi inimmaginabili. A Giovanni non è stata data una visione di come in effetti realmente sia il cielo. È evidente che non possano esservi nel cielo cavalli bianchi, rossi, neri o pallidi con cavalieri marziali. Non è pensabile che Cristo possa apparire in cielo nella forma di un agnello con una ferita sanguinante (Ap 5:6).

Allo stesso modo, nel cielo non esistono «anime» di martiri pigiate alla base dell’altare. L’intera scena è semplicemente una rappresentazione simbolica volta a rassicurare coloro che affrontano il martirio e la morte perché alla fine sarà fatta loro giustizia. Una tale rassicurazione è particolarmente incoraggiante per coloro che, come Giovanni, dovevano affrontare terribili persecuzioni visto che si rifiutavano di partecipare al culto imperiale.

L’uso della parola «anima» (psychas), in questo passo, è unica per il Nuovo Testamento e non viene mai usata in riferimento agli esseri umani nello stato intermedio. La ragione di questo uso è suggerita dalla morte innaturale dei martiri il cui sangue è stato versato per la causa di Cristo. Nel sistema espiatorio dell’Antico Testamento, il sangue dei sacrifici veniva versato alla base dell’altare degli olocausti (Lev 4:7,18,25,30). Il sangue conteneva l’anima (17:11) della vittima innocente che veniva offerta da parte dei peccatori penitenti come sacrificio espiatorio a Dio.

Il linguaggio della morte espiatoria è usato altrove nel Nuovo Testamento per designare il martirio. Nel suo testamento spirituale e sentendo prossima la morte, Paolo scrive: «Quanto a me, io sto per essere offerto in libazione, e il tempo della mia partenza è giunto» (2 Tm 4:6). Ai filippesi scrive: «Ma se anche vengo offerto in libazione sul sacrificio e sul servizio della vostra fede, ne gioisco e me ne rallegro con tutti voi» (Fil 2:17). Così i martiri cristiani sono considerati sacrifici offerti a Dio.

Il loro sangue, versato sulla terra, viene simbolicamente sparso sull’altare celeste. Per questo le anime sono viste sotto l’altare perché è lì che simbolicamente scorre il sangue dei martiri.

Nessuna rappresentazione dello stato intermedio

La rappresentazione simbolica dei martiri come sacrifici offerti sull’altare del cielo può difficilmente essere utilizzata per discutere della loro esistenza cosciente e disincarnata nel cielo. George Eldon Ladd, uno studioso evangelico di rispetto, giustamente afferma: «Il fatto che Giovanni abbia visto le anime dei martiri sotto l’altare non ha nulla a che vedere con lo stato dei morti o la loro situazione nello stato intermedio; si tratta semplicemente di un modo brillante per raffigurare il fatto che sono stati martirizzati nel nome di Dio».[35]

Alcuni studiosi pensano che la «veste bianca» data ai martiri sia il corpo intermedio dato loro alla morte.[36] In Apocalisse, la «veste bianca” rappresenta non il corpo intermedio, ma la purezza e la vittoria dei salvati mediante il sacrificio di Cristo. I santi vengono dalla grande tribolazione e «hanno lavato le loro vesti e le hanno imbiancate nel sangue dell’Agnello» (Ap 7:14). «Alla chiesa di Laodicea viene consigliato di comprare oro, vesti bianche, e collirio (Ap 3:18), un suggerimento davvero strano se le vesti bianche fossero i corpi glorificati».[37]

Le vesti bianche che rivestono le «anime», molto probabilmente, rappresentano il riconoscimento di Dio della purezza e della vittoria che i santi hanno ottenuto mediante «il sangue dell’Agnello» nono-stante la loro morte ignominiosa. Le anime dei martiri sono viste come se si riposassero sotto l’altare, non perché siano in uno stato di beatitudine senza corpo, ma perché aspettano il compimento della redenzione e della loro risurrezione alla venuta di Cristo «finché fosse completo il numero dei loro compagni di servizio e dei loro fratelli che dovevano essere uccisi come loro» (Ap 6:11). Giovanni descrive questo evento più tardi, dicendo: «Vidi le anime di quelli che erano stati decapitati per la testimonianza di Gesù e per la parola di Dio, e di quelli che non avevano adorato la bestia né la sua immagine e non avevano ricevuto il suo marchio sulla loro fronte e sulla loro mano. Essi tornarono in vita e regnarono con Cristo per mille anni… Questa è la prima risurrezione» (Ap 20:4).

Questa descrizione dei martiri «decapitati per la testimonianza di Gesù e per la parola di Dio» è molto simile a quella di Apocalisse 6:9. L’unica differenza è che nel sesto capitolo ai martiri deceduti viene ordinato di riposare, mentre nel ventesimo capitolo sono risuscitati. È evidente che, se i martiri sono risuscitati all’inizio del millennio, alla venuta di Cristo, difficilmente possono abitare in cielo e in uno stato disincarnato mentre riposano nella tomba. Per riassumere, la funzione della visione dei martiri sotto l’altare celeste non è quella di informare sullo stato intermedio dei morti, ma di rassicurare i credenti che Dio, alla fine, renderà giustizia ai martiri che al tempo di Giovanni e nei secoli successivi, avrebbero dato la loro vita per la causa di Cristo.

Conclusione

Il presente studio sullo stato dei morti durante il periodo intermedio fra la morte e la risurrezione ha mostrato come sia l’Antico sia il Nuovo Testamento unanimemente insegnino che la morte rappresenta la cessazione dell’intera persona. Lo stato dei morti è, quindi, uno stato di inconsapevolezza, di inattività e di sonno che continuerà fino al giorno della risurrezione. L’analisi dell’uso della parola sheol nell’Antico Testamento e ades nel Nuovo hanno mostrato che entrambi i termini indicano la tomba o il regno dei morti e non il luogo di punizione per gli empi. Non c’è nessuna beatitudine o punizione subito dopo la morte, ma un riposo nella completa incoscienza fino al giorno della risurrezione.

La nozione di ades come luogo di tormento per gli empi deriva dalla mitologia greca non dalla Scrittura. Nella mitologia l’ades era il mondo sotterraneo dove le anime coscienti dei morti venivano ripartite in due luoghi principali: i dannati nel luogo di tormento e i buoni in quello della beatitudine. Questa concezione greca ha influenzato alcuni intellettuali ebrei durante il periodo intertestamentario i quali adottarono l’idea che subito dopo la morte le anime dei giusti sarebbero ascese alla felicità celeste, mentre le anime dei reprobi sarebbero scese nel luogo di tormento, cioè l’ades. Questo scenario popolare è rintracciabile nella parabola del ricco e Lazzaro.

È spiacevole rilevare che la storia del cristianesimo sia stata più o meno influenzata dalla visione dualistica greca sulla natura umana, secondo la quale il corpo è mortale e l’anima immortale.[38] L’accettazione dell’eresia sulla morte ha condizionato l’interpretazione della Scrittura e ha generato un nutrito numero di altri errori come il purgatorio, il tormento eterno nell’inferno, la preghiera per i morti, l’intercessione dei santi, le indulgenze e il concetto etereo di paradiso. È incoraggiante vedere come molti studiosi appartenenti a ogni denominazione religiosa critichino sempre di più la posizione dualistica tradizionale e gli errori a essa collegata. C’è da sperare che questi sforzi contribuiscano a recuperare l’opinione biblica unitaria intorno alla natura umana e al suo destino, così da dissipare le tenebre spirituali che per molti secoli hanno avvolto il mondo con credenze superstiziose.

Questo studio è stato tratto dal libro “Immortalità o Risurrezione?, di Samuele Bacchiocchi, teologo, della Andrews University, Michigan, U.S.A., ed. AdV, Impruneta, (FI).

[1] G.C. BERKOUWER, The Return of Christ, Grand Rapids, 1972, p. 63. A.A. HOEKEMA sottolinea che la traduzione inglese della frase che si trova a p. 63 del libro The Return of Christ non interpreta fedelmente la parola olandese «fluistering» (sussurrare), scegliendo la parola «proclamazione:», «Chi avrebbe la pretesa di sapere aggiungere altro alla proclamazione del Nuovo Testamento?». A.A. HOEKEMA, The Bible and the Future, Grand Rapids, 1979, p. 94.

[2] E.W. FUDGE, The Fire That Consumes. A Biblical and Historical Study of the FinalPunishment, Houston, 1989, p. 205.

[3] Per un’istruttiva discussione sull’adozione della concezione greca dell’ades durante il periodo dell’intertestamento, cfr. J. JEREMIAS, «Ades» art. In G. KITTEL, G. FREIDRICH, Grande Lessico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia, 1965 vol. 1, col. 395.

[4] Cfr. Mt 11:23; 16:18; Lc 10:15; 16:23; At 2:27, 3 1; Ap 1:18, 6:8; 20:13; 20:14.

[5] Cfr. 1 Cor 15:55.

[6] Cfr. Mt 5:22,29,30; 10:28; 18:9; 23:15,33; Mc 9:43,45,47; Lc 12:5; Gc 3:6.

[7] K. HANHART giunge sostanzialmente alla stessa conclusione nella sua tesi di laurea presentata all’Università di Amsterdam. Ella scrive: «Giungiamo alla conclusione che questi passaggi non fanno piena luce sulla questione che stiamo trattando (lo stato intermedio). Nel senso di potere della morte, regno degli abissi e luogo nel quale si manifestano un’umiliazione assoluta e il giudizio, il termine ades non va oltre il significato che ha Sheol nell’Antico Testamento» (K. Hanhart, The Intermediate State in the New Testament, Doctoral dissertation, University of Amsterdam, 1966, p. 35).

[8] R.A. PETERSON, Op. cit., p. 67.

[9] F. JOSEPHUS, Discourse to the Greeks Concerning Hades, in Complete Works, (trad. da W. Whiston) Grand Rapids, 1974, p. 637.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem.

[12] Ibidem.

[13] Ibidem.

[14] Per un breve sunto della letteratura intertestamentaria sulla condizione dei defunti nell’ades cfr. K. HANHART, Op. cit., pp. 18-31.

[15] J.W. COOPER, Op. cit., p. 139

[16] Ibidem

[17] Ibidem

[18] N. GELDENHUYS, Commentary on the Gospel of Luke, Grand Rapids, 1983, p. 611.

[19] R.A. MOREY, Op. cit., pp. 211,212.

[20] H. THIELICKE, Living with Death, (trad. da Geoffrey W. Bromiley), Grand Rapids, 1983, p. 177.

[21] R.S. ANDERSON, On Being Human, Grand Rapids, 1982, p. 117.

[22] B.F.C. ATKINSON, Op. cit., p. 67.

[23] G.C. BERKOUWER, Man: The Image of God, Grand Rapids, 1962, p. 265.

[24] K. HANHART, Op. cit., p. 184.

[25] Cfr, per esempio, G.C. BERKOUWER, The Return of Christ, Grand Rapids, 1972, pp. 55-59; G. CALVINO, Second Epistle of Paul, the Apostle to the Corinthians, ad. loc.; R.V.G. TASKER, La seconda epistola di Paolo ai Corinzi, (Trad. M. Fanelli), GBU, Roma, 1978 (cfr. Il commento al capitolo 5 vv. 1-10).

[26] R.A. MOREY, op.cit., p. 210.

[27] Ibidem.

[28] Cfr. C.H. DODD, The Bible and the Greeks, New York, 1954, pp. 191-195; FILONE Alessandrino, Le allegorie delle leggi, 2, 57,59 in La creazione del mondo e le allegorie delle leggi, (a cura di G. Reale), Rusconi, Milano, 1978, pp. 229,230.

[29] Per una lista esauriente di tutti gli studiosi che sostengono questa posizione cfr. M.J. HARRIS, Raised Immortal: Resurrection and Immortality in the New Testament, London, 1986, p. 255 n. 2.

[30] Cfr. F.F. BRUCE, Paul: Apostle of the Heart Set Free, Grand Rapids, 1977, p. 310.

[31] Cfr. J. DENNEY, Second Epistle to the Corinthians, New York, 1903, ad loc.; F. V. FILSON, The Second Epistle to the Corinthians, in The Interpreter’s Bible, New York, 1952, vol. 10, ad loc.; P.E. HUGHES, Paul’s Second Epistle to the Corinthians, Grand Rapids, 1976, ad loc.; B.F.C. ATKINSON, Op. cit., pp. 64-65; The Seventh-day Adventist Commentary, Washington, DC, 1957, vol. 6, pp. 861-863

[32] 294 K. HANHART, Op.cit., p. 156.

[33] R.A. PETERSON, Op.cit., p. 185.

[34] R.A. MOREY, Op. cit., p. 214.

[35] G.E. LADD, A Commentary on the Revelation of John, Grand Rapids, 1979, p. 103.

[36] Per esempio, Anthony A. Hoekema scrive: «Le vesti bianche ai martiri suggeriscono l’idea che questi stanno godendo di un tipo di benedizione provvisoria che si proietta nel futuro fino alla risurrezione finale» (op. cit., p. 235). Cfr anche M.J. HARRIS, Op. cit., p. 138; G.B.A. CAIRD, A Commentary on the Revelation of St. John the Divine, New York, 1966, p. 86; R.H. PRESTON e A.T. HANSON, The Revelation of Saint John the Divine,London, 1949, p. 81.

[37] R.H. MOUNCE, The Book of Revelation, Grand Rapids, 1977, p. 160.

[38] Nel Nuovo Testamento non c’è una precisa descrizione dell’aldilà. Il cattolico Hans BIETENHARD ammette che nel tardo giudaismo o nel cristianesimo medievale vi sia stata la tendenza a voler dire una parola complementare. «Forse è stato proprio il silenzio del Nuovo Testamento sui particolari dell’aldilà e sulla situazione intermedia fino alla parusia che ha provocato la curiosità pseudodevozionale e ha fatto sì che non ci si accontentasse di porre la propria speranza in Cristo, ma ha condotto a pensare di dover completare le affermazioni della Scrittura con fantasie umane: il che, in definitiva, sta a dimostrare una mancanza di fede. A questo movimento ha contribuito anche il fatto che al posto della fede neotestamentaria nella risurrezione dei morti (1 Cor 15) sia subentrata in un certo senso la dottrina greca dell’immortalità dell’anima, che rimane tuttora l’opinione prevalente anche fra i cristiani, senza che si rendano conto veramente della profonda originalità della speranza cristiana». Dizionario dei concetti biblici del Nuovo Testamento, Dehoniane, Bologna, 1976, p. 855 (ndr).