Prima di rispondere a questa domanda è importante cercare di comprendere perché il santuario terreno doveva essere purificato e quali sono le implicazioni teologiche in relazione al santuario in cielo.
Nell'antico santuario d'Israele, nel giorno del gran perdono o dell’espiazione (Yom Kippour) “la parte centrale del rituale consisteva nell'aspersione del sangue di un capro nel luogo santissimo e nell'invio di un capro vivo nel deserto. I due capri erano offerti dal popolo e mediante la sorte (Lv 16:8) erano destinati l'uno all'Eterno e l'altro ad Azazel (Azazel, nella tradizione giudaica, era il nome di un demone del deserto). Il capro in sorte all'Eterno era immolato nel cortile dal sommo sacerdote, dopo che questi aveva confessato i peccati del popolo, imponendo le mani sulla testa dell'animale. Parte del suo sangue era da lui asperso sul coperchio dell'arca o propiziatorio nel luogo santissimo. Con questo rito il sommo sacerdote compiva la purificazione del santuario, nel senso che rimuoveva i peccati del popolo ivi trasferiti mediante i sacrifici espiatori quotidiani.
Sempre in forma simbolica, detti peccati erano portati via sulla propria persona dal sommo sacerdote il quale, tornato nel cortile, li deponeva a sua volta sul capro destinato ad Azazel posando le sue mani sul capo dell'animale. Questo capro, unica eccezione in tutto il rituale israelitico, non veniva immolato, ma era condotto e abbandonato nel deserto da un uomo appositamente designato per questo compito. Con il capro, il popolo vedeva allontanarsi i suoi peccati. Dopo quattro giorni, e per sette giorni di seguito, il popolo celebrava la festa più gioiosa dell'anno, la festa delle capanne" (AA. VV., Siamo pieni di speranza, I.A.D.E., ed. ADV, 1992, pp. 97, 98).
Tutto questo rituale prefigurava Cristo come salvatore, mediatore del nuovo patto, e il giorno del giudizio escatologico, che la Scrittura in Daniele 8:14 definisce come “la purificazione del santuario”.