07. Le metafore nell’inferno

07. Le metafore nell’inferno

Le difficoltà poste dal concetto tradizionale di inferno, hanno indotto alcuni studiosi a cercare interpretazioni alternative. Qui di seguito, prenderemo in esame due recenti tentativi volti a capire i dati biblici per una ridefinizione della natura dell’inferno.

1. L’interpretazione metaforica dell’inferno

La revisione più modesta del concetto tradizionale di inferno implica l’interpretazione metaforica della natura del tormento perpetuo. Secondo questo modo di vedere, l’inferno è ancora considerato una punizione eterna, ma con meno sofferenza perché il fuoco fisico non tortura o non brucia la carne degli empi, ma indica il dolore causato della separazione da Dio. Billy Graham si esprime in questi termini: «Mi sono spesso domandato se l’inferno non fosse un’arsura terribile nei nostri cuori per Dio, per la comunione con Dio, un fuoco che non possiamo mai spegnere».[1]

L’interpretazione di Graham del fuoco infernale come «un’arsura terribile nei nostri cuori per Dio» è molto

ingegnosa. Sfortunatamente, essa ignora che «l’ardere» succede non dentro il cuore, ma fuori, dove gli empi sono consumati. Se gli empi provassero arsura nei loro cuori per Dio, non sperimenterebbero, poi, la sofferenza per la punizione finale.

Le metafore

Nella sua singolare metafora dell’inferno, William Crockett sostiene che i credenti non dovrebbero avere difficoltà a credere che «una parte della creazione trovi riposo nel cielo, mentre l’altra parte patisca nell’inferno».[2]

La sua soluzione consiste nel riconoscere che «il fuoco e lo zolfo dell’inferno non siano descrizioni letterali, ma espressioni metaforiche che comunicano agli empi l’imminente condanna».[3] Crockett cita Calvino, Lutero e una moltitudine di studiosi contemporanei, i quali «interpretano metaforicamente il fuoco dell’inferno o almeno ammettono la possibilità che l’inferno possa essere qualcos’altro rispetto al fuoco letterale».[4] Crockett sostiene che «la ragione più forte per interpretarle (le immagini dell’inferno) come metafore, sia data dal linguaggio contraddittorio usato nel Nuovo Testamento per descrivere l’inferno. Come può l’inferno essere un fuoco letterale quando è anche descritto come tenebre? (cfr. Mt 8:12; 22:13; 25:30; 2 Pt 2:17; Gd 13)».[5] Continua, ponendo questa domanda: «Gli scrittori del Nuovo Testamento si aspettavano che interpretassimo letteralmente le loro parole? Certamente, Giuda no! Egli descrive l’inferno come «fuoco eterno» nel versetto 7, e più avanti lo descrive come «l’oscurità delle tenebre in eterno» nel versetto 13. Fuoco e tenebre, naturalmente, non sono le uniche immagini che siano date dell’inferno nel Nuovo Testamento. È detto degli empi che piangono e digrignano i denti (Matteo 8:12; 13:42; 22:13; 24:51; 25:30; Lc 13:28), il loro verme non muore mai (Mc 9:48), e sono colpiti da molte battiture (Lc 12:47).

Nessuno pensa che l’inferno implichi ricevere battiture o che sia un luogo dove i vermi dei morti diventano eterni. Similmente, nessuno pensa che lo stridore dei denti sia qualcos’altro dell’immagine della realtà orribile dell’inferno. Nel passato, alcuni si preoccupavano per quanti fossero entrati nell’inferno senza denti. Come avrebbero potuto digrignare i loro denti?[6] La risposta che alcuni hanno dato è questa: “Delle dentiere saranno fornite nel mondo avvenire, affinché i condannati possano piangere e digrignare i denti”».[7]

In base alla sua interpretazione metaforica sul fuoco infernale, Crockett conclude: «L’inferno, allora, non deve esser immaginato come qualcosa che erutta fiamme come la fornace ardente di Nabucodonosor. Tutto quello che possiamo dire è che i ribelli saranno allontanati dalla presenza di Dio, senza speranza di restaurazione. Come Adamo ed Eva, saranno scacciati, ma stavolta nella “notte eterna”, dove gioia e speranza sono perduti per sempre».[8]

Valutazione dell’interpretazione metaforica

Bisogna riconoscere che i sostenitori di questa interpretazione sono nel giusto quando indicano che le immagini usate nella Bibbia per descrivere l’inferno, come fuoco, tenebre, vermi voraci, zolfo e stridore dei

denti, siano metaforiche e non descrizioni reali. Quando si interpreta un testo è importante distinguere tra la forma e il contenuto. Le metafore sono date per comunicare un contenuto particolare, ma non sono il contenuto in sé. Questo significa che quando si interpretano delle immagini simboliche, si deve capire il messaggio comunicato e non soffermarsi tanto sulle immagini che sono descrizioni letterali della realtà.

I sostenitori della visione metaforica sono nel giusto quando dicono che il problema fondamentale dell’insegnamento tradizionale dell’inferno poggi sul letteralismo e finisca, poi, per ignorare la natura altamente simbolica del linguaggio. Il problema però consiste nel fatto che essa sostituisca il tormento fisico con un tormento mentale considerandolo più sopportabile. Comunque, abbassando il quoziente del

dolore in un inferno non letterale, sostanzialmente non viene cambiata la sua natura dal momento che rimane ancora un luogo di perenne tormento.

Alcuni potrebbero persino dire che la nozione dell’eterno tormento mentale sia più «umana» del tormento fisico. L’angoscia mentale, però, può essere tanto dolorosa quanto il tormento fisico. Rendendo l’inferno più umano, l’interpretazione metaforica non ha fatto un passo avanti perché è ancora gravata dagli stessi problemi dell’inferno tradizionale.

Alla gente viene chiesto ancora di credere che esiste un Dio che tormenta per sempre gli empi, anche se si presume in modo meno severo. Ritengo che si debba trovare una soluzione non tanto «nell’umanizzazione» o «nell’igienizzazione» dell’inferno così da provare definitivamente che esso è un luogo più tollerabile per gli empi, dove possano trascorrere l’eternità, quanto nel capire la natura della punizione finale che, come vedremo, consiste nella distruzione totale e non nel tormento eterno.

2. Gli universalisti e l’inferno

Una seconda e più radicale posizione sull’inferno è offerta dagli universalisti i quali riducono l’inferno a una condizione temporanea di punizioni graduali che, alla fine, permetteranno di accedere al cielo. Gli universalisti credono che alla fine Dio riuscirà a portare ogni essere umano alla salvezza e alla vita eterna così che nessuno sarà condannato al giudizio dell’eterno tormento finale o annichilimento.

Questa idea era già stata suggerita da Origene nel terzo secolo, e ha ottenuto un costante sostegno nei tempi moderni, specialmente attraverso gli scritti di teologi come Friedrich Schleiermacher, C.F.D. Moule, J.A.T. Robinson, Micheal Paternoster, Micheal Perry e John Hick. Gli argomenti presentati da questi, come da altri autori a sostegno dell’universalismo, sono teologici e filosofici.

Argomenti teologici e filosofici

La teologia ricorre ai «brani universalisti» (cfr. 1 Tm 2:4; 4:10; Col 1:20; Rm 5:18; 11:32; Ef 1:10; 1 Cor 15:22) per accettare l’idea della speranza di una salvezza universale. Sulla base di questi testi, essi ritengono che se alla fine tutti gli esseri umani non saranno salvati, allora la volontà di Dio, cioè che «tutti gli uomini siano salvati e vengano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2:4) verrebbe a essere frustrata e sconfitta. Solo attraverso la salvezza di tutti gli esseri umani, Dio può dimostrare il trionfo del proprio infinito e paziente amore.

Sul piano filosofico, gli universalisti trovano intollerabile che un Dio amorevole possa permettere che milioni di persone soffrano l’eterno tormento per i peccati commessi in un breve periodo di anni. Jacques Ellul articola ammirevolmente questa interpretazione, ponendosi le seguenti domande: «Non abbiamo visto l’impossibilità di considerare come la nuova creazione, quella mirabile sinfonia d’amore, possa coesistere “vicino” al mondo dell’ira? Dio è forse bifronte? Ha forse un volto d’amore rivolto verso la sua Gerusalemme celeste e un volto d’ira rivolto verso questo “inferno”? La pace e la gioia di Dio sono complete, dal momento che continua a essere un Dio d’ira e di folgori? Può il paradiso essere così come Romain Gary lo ha meravigliosamente descritto in Tulipe, quando afferma che il guaio non è tanto il campo

di concentramento ma “il piccolo villaggio tranquillo e felice vicino al campo”. Il piccolo villaggio “accanto”, dove la gente viveva indisturbata mentre milioni morivano atrocemente nel campo».[9]

Una trasformazione graduale

Gli universalisti ritengono che sia impensabile che alla fine Dio condanni all’eterno tormento gli innumerevoli milioni di non cristiani che non hanno risposto a Cristo visto che non hanno mai potuto sentire il messaggio cristiano. La soluzione proposta da alcuni di loro è che Dio salverà tutti gli infedeli rendendoli capaci d’esser gradualmente trasformati dopo la morte.

Quest’interpretazione rappresenta una revisione della dottrina cattolica romana del purgatorio, che limita questo processo riparatore solo alle anime dei fedeli. Gli universalisti allargano questo privilegio anche alle anime degli infedeli. In questo modo, Dio continuerebbe a richiamare a sé dopo la morte i non salvati, finché, finalmente, tutti risponderanno al suo amore e gioiranno per tutta l’eternità alla sua presenza.

Attraente, ma non biblica

Nessuno può negare che gli argomenti teologici e filosofici dell’universalismo siano congeniali alla coscienza cristiana. Chiunque abbia profondamente sentito l’amore di Dio desidera che operi salvando ogni persona e, allo stesso tempo, respinge il pensiero che possa essere così vendicativo da punire milioni di persone - specialmente nei confronti di quanti sono vissuti nell’ignoranza - con tormenti eterni. La stima e l’interesse degli universalisti a inneggiare il trionfo dell’amore di Dio e a rifiutare, nello stesso tempo, il concetto non biblico della sofferenza eterna, non deve far dimenticare il fatto che questa dottrina contiene in sé una distorsione preoccupante dell’insegnamento biblico.

  1. I «passi universalisti» dichiarano lo scopo del disegno universale della salvezza di Dio, ma non parlano della salvezza universale per ogni essere umano. Per esempio, in Colossesi 1:20,23 il piano di Dio è «di riconciliare con sé tutte le cose» ivi inclusi gli stessi colossesi, «se appunto perseverate nella fede». Lo stesso troviamo in 1 Timoteo 2:4, dove il desiderio di Dio che «tutti gli uomini siano salvati» è espresso unitamente al fatto che un giudizio finale porterà «rovina e distruzione» agli infedeli (1 Tm 6:9, 10; cfr. 5:24; 4:8). Dio estende a tutti la salvezza, ma allo stesso tempo rispetta la libertà di quanti rigettano la sua offerta benché questo gli procuri tristezza.
  2. L’idea che Dio alla fine salverà tutti, solo perché è impossibile accettare la dottrina del tormento eterno dei non salvati da un lato, e perché questo nega ogni senso di giustizia divina di pace e di gioia celeste dall’altro, è un argomento valido. Comunque, come abbiamo già dimostrato in precedenza, la salvezza universale poggia su un’interpretazione erronea dell’insegnamento biblico a proposito della natura della punizione finale degli empi. La salvezza universale non può esser giusta soltanto perché la sofferenza eterna è sbagliata.
  3. La nozione di una punizione riparatrice o di una trasformazione graduale dopo la morte, è totalmente estranea alla Scrittura. Il destino di ogni persona è determinato alla morte. Questo principio è espresso esplicitamente da Cristo nella parabola del ricco e Lazzaro (Lc 16:9, 21). In Ebrei 9:27, è anche chiaramente affermato che «è stabilito che gli uomini muoiono una volta sola, dopo di che viene il giudizio». Per i peccatori impenitenti, «la prospettiva del giudizio» è «paurosa», perché sperimenteranno non la salvezza universale «ma una terribile attesa del giudizio e l’ardore di un fuoco che divorerà i ribelli» (Eb 10:26,27).
  4. Riguardo alla sfida nei confronti di coloro che non hanno avuto nessuna opportunità di apprendere o rispondere al messaggio di Cristo, non è necessario per questo giungere ad abbandonare la fede nella salvezza in Gesù Cristo e consegnare tutti i non cristiani al tormento eterno. I meno privilegiati possono trovare salvezza sulla base della loro risposta in merito a ciò che hanno conosciuto di Dio. Paolo afferma che i pagani che non conoscono la legge saranno giudicati secondo la legge «scritta nei loro cuori» (Rm 2:14,16).

L’universalismo, benché a prima vista risulti attraente, è fuorviante perché non riconosce che l’amore di Dio per l’umanità è manifestato non tanto nel cercare di scusare i peccati, né limitando la libertà umana, ma piuttosto nell’offrire la salvezza a esseri umani dotati di libero arbitrio.

Questa verità è espressa in modo chiaro nel testo più noto a proposito dell’amore di Dio e il pericolo che può seguirne se esso viene rifiutato: «Poiché Dio ha tanto amato il mondo che ha dato il suo unigenito Figlio, affinché chiunque crede in lui non perisca ma abbia vita eterna» (Gv 3:16).

Conclusione

L’interpretazione metaforica e quella universale dell’inferno rappresentano due tentativi tesi a «togliere l’inferno dall’inferno». Sfortunatamente, non rendono giustizia ai dati biblici e così, alla fine, travisano la dottrina biblica della punizione finale dei non salvati. La saggia soluzione ai problemi dell’opinione tradizionale si deve trovare, non abbassando o eliminando il quoziente di dolore da un inferno letterale ma, accettando l’inferno per ciò che è, la punizione finale e l’annichilimento totale degli empi. Come dice la Bibbia: «Ancora un po’ e l’empio scomparirà» (Sal 37:10) perché «la fine dei quali è la distruzione» (Fil 3:19).

Note

[1] B. GRAHAM, «There is a Real Hell», in Decision n. 25, July-August 1984, p. 2. Altrove Graham si chiede: «Può essere che il fuoco di cui parla Gesù indichi una ricerca eterna di Dio che non si estingue mai? In caso contrario non può trattarsi che dell’inferno. Essere separati per sempre da Dio, allontanati dalla sua presenza». (in The  Challenge: Sermons from Madison Square Garden, Garden City, New York, 1969, p. 75).

[2] W.V. CROCKETT, «The Metaphorical View», in Four Views of Hell, ed.William Crockett, Grand Rapids, 1992, pp.43.

[3] Ibidem, p. 44.

[4] Idem.

[5] Ibidem, p. 59.

[6] Ibidem, p. 60.

[7] La frase è del Professor Coleman Norton della Princeton University ed è citata da B.M. METZGER, «Literary and Canonical Pseudepigrapha», in Journal of Biblical Literature 91 (1972), p. 3.

[8] W.V. CROCKETT, Op. cit., p. 61.

[9] J. ELLUL, Apocalypse, The Book of Revelation, New York, 1977, p. 212.